Mi auguro che qualche bravo o brava giornalista e anche qualche bravo o brava giurista abbiano la pazienza di leggere attentamente le 900 pagine delle motivazioni della sentenza che ha condannato Mimmo Lucano a tanti anni di carcere quanti spesso non si comminano ai peggiori criminali.

Mediterò sui loro pareri.

Ma intanto non posso fare a meno di riportare una breve frase di quel ponderoso testo, trovato citato su Facebook. Accettando il rischio del caso.

Dunque il Collegio giudicante che firma le motivazioni svaluta, esprimendosi in periodi tortuosi, il fatto che Lucano ha sempre sostenuto di non aver intascato un euro del denaro su cui ha deciso da sindaco, e afferma tra l’altro che «ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza, ignorando però l’esistenza di un quadro probatorio di elevata conducenza, che ha restituito al Collegio un’immagine ben diversa da quella che egli ha cercato di accreditare all’esterno».

Conducenza??

Una rapida ricerca tra dizionari in rete mi ha portato al nulla. Sembrerebbe, insomma, una parola inesistente. Digita e digita, ma l’unico termine simile che appare è «conducente», quel signore, o signora, che guida il bus, il tram, o altro veicolo più o meno pubblico.
Forse i giudici, preoccupati di elaborare un linguaggio giuridico perfettamente aderente alla fondatezza delle loro considerazioni, non trovando nel lessico italiano il vocabolo adatto alla bisogna in quel preciso tornante del

significante, hanno ritenuti di essere investiti del potere abbastanza eccezionale – ma tanto in tempi di emergenza ci sta anche questo – di inventarsi un nuovo nome. Il potere di nominazione, si sa, ha in sé qualcosa di divino. Inebriante.

Ma che significherà mai Conducenza?

Forse si è voluto estrarre dal conducente la sua, per così dire, essenza, facendone una categoria pregnante a sé. Che dal tram minaccioso sferragliante e rigorosamente diretto da rotaie, oltre che dal solito conducente, possa estendersi al procedere inarrestabile, indiscutibile, delle medesime argomentazioni del Collegio giudicante, ovviamente basate su quel «quadro probatorio» di rocciose evidenze. «Ah, quel magistrato ha provato la colpevolezza del farabutto pronunciando una requisitoria dalla conducenza inoppugnabile!».

Il linguaggio oscuro, quando proviene da un luogo del potere, può intimidire. Se lo dicono loro, ci sarà da crederci. Non capisco il significato, ma il suono stesso delle sillabe, il modo in cui sono accentate, il contesto retorico nel quale la parola inaudita improvvisamente compare, mi convincono ancora di più che se ne comprendessi davvero il senso.

C’è però un però. Questo avviene se quel luogo del potere linguisticamente inventivo mantiene l’autorità che lo sorregge, giustifica, legittima. Ma – e duole veramente ricordarlo – non sembra essere oggi questa la situazione della magistratura italiana. Se le cose stanno così allora è possibile che l’eccesso di disinvoltura con le parole si ritorca contro chi ha sopravvalutato il proprio «potere di nominazione». Con quell’effetto tra i più insidiosi per chi sta o crede di stare in alto: il ridicolo.

Essendo tutto sommato un moderato non mi iscrivo nel partito di chi è pronto a giudicare ridicola questa stravagante conducenza. Diciamo che mi insospettisce.

Sospetto che chi si inventa una parola per superare un’incertezza sintattica e logica, possa essere indotto a forzare anche un supposto «fatto» per confermare la propria opinione. Insomma viene in dubbio la capacità di giudizio.

Un problema trattandosi di giudici. Ma certo sarò smentito