La sentenza arriva dopo 20 mesi di udienze, 230 sedute e 5 ore di camera di consiglio. Puntuali, intorno alle 13, i giudici chiudono il primo grado del processo comunemente detto Mafia Capitale. Il dispositivo letto dalla presidente Rossana Ianniello incrocia differenti livelli, non parla solo dei 46 imputati e va oltre la mappa del sistema di potere che per anni ha imperversato a Roma.

Il primo dato è il duro colpo all’ipotesi accusatoria portata avanti dai pm Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli sulla base delle indagini coordinate dal procuratore Giuseppe Pignatone.

Cade il reato più grave, l’associazione di stampo mafioso. La Mafia Capitale non è una forma nuova di mafia. Il sodalizio fatto di alleanze, giochi di potere e grumi di interesse viene declassato ad associazione a delinquere semplice.

Quasi a far da contrappeso, piovono condanne: per 36 persone ci sono 250 anni di reclusione. A partire da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, considerati i capi, condannati rispettivamente a 20 e 19 anni (comunque meno di quanto avesse chiesto l’accusa).

Nel dicembre del 2014 sulla Roma dei palazzi del potere e delle relazioni pericolose precipita l’«operazione mondo di mezzo». Con centinaia di pagine di ordini di arresto gli inquirenti tirano l’ennesimo filo nero che collega affari e denaro pubblico, cascami delle trame nere e politica corrotta.

L’inchiesta prende a prestito il nome dalla teoria formulata da Carminati, già considerato una specie di ufficiale di collegamento tra i Nar e la Banda della Magliana. Il Nero, intercettato, la vede così: «Ci stanno i vivi sopra e i morti sotto. Noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano».

La quasi secolare alleanza tra fascisti e padroni, con le sue diramazioni nei palazzi del potere e le relazioni criminali, serve questa volta a costruire una forma predatoria di mediazione sociale, a garantire la camera di compensazione di una nuova borghesia parassitaria. Il fondo d’investimento al quale attinge Carminati è la propria storia personale, il mito della sua invincibilità e la storia dei suoi approdi nei tanti porti delle nebbie dell’Italia anticomunista. «M’hanno chiamato re di Roma, Er Cecato, il Nero di Romanzo criminale, il Samurai di Suburra – recita una delle intercettazioni – Nel mio ambiente queste cose ti rendono ridicolo, non ti danno potere». Ma in un’altra occasione si vanta: «È il re di Roma che viene qua».

Più volte, ascoltato in videoconferenza dall’isolamento estremo del 41 bis, si esibisce in uno scenografico saluto romano che pare fatto apposta per alimentare leggende e gonfiarne il mito. Diversi volti noti dell’estrema destra romana siano stati visti a piazzale Clodio, a seguire le udienze manifestare attenzione.

Ma nel «mondo di mezzo» di Carminati si proclamano stati d’emergenza che creano sovranità: servono agli imprenditori per lucrare e ai politici per avere più potere.

Qui entra in gioco il ruolo di Salvatore Buzzi. L’ex detenuto al centro di una fitta rete di cooperative sociali scrive in un sms di auguri per il 2013: «Speriamo che sia un anno pieno di monnezza, profughi, immigrati, sfollati, minori, piovoso così cresce l’erba da tagliare e magari con qualche bufera di neve: evviva la cooperazione sociale».

La storia di Buzzi si intreccia con quella che parla di diritti della cooperativa 29 giugno, la prima di ex detenuti in Italia. Quando il «cecato» Carminati, esorta Buzzi a «mettersi la minigonna» e ad «andare a battere» si riferisce alla nuova giunta di Ignazio Marino. Qualche tempo dopo afferma: «Col mio amico capogruppo se magnamo Roma».

Tra i politici la pena più pesante, 11 anni, colpisce Luca Gramazio, già consigliere comunale e capogruppo alla Regione Lazio del Pdl: avrebbe utilizzato la sua posizione per pianificare la spartizione di appalti. Era stato eletto nelle liste del Pd, invece, l’ex presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, condannato a 6 anni: Buzzi afferma di «esserselo comprato».

Il consigliere Pdl Giordano Tredicine, condannato a 3 anni, è parte della famiglia che a Roma gestisce camionbar e bancarelle.

Viene da sinistra Luca Odevaine, già capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni e componente del tavolo permanente sugli immigrati a stipendio di Buzzi. È stato condannato a 6 anni e mezzo: quando il capo della 29 giugno pronuncia la famosa frase circa il business dei migranti che rende «più della droga» si riferisce anche ai suoi servizi.

Spettano 5 anni ad Andrea Tassone, anche lui Pd e presidente del municipio di Ostia commissariato per infiltrazioni mafiose.

Sono 10 gli anni di pena per un’altra vecchia conoscenza dell’estrema destra come Franco Panzironi, Ad di Ama e braccio destro di Gianni Alemanno: «Mi chiese il 2,5% su un appalto da 20 milioni», dice Buzzi.