Condannato. Colpevole. La Corte d’Appello di Potenza, presieduta dal giudice Pasquale Autera, alle 13:15 condanna il maresciallo dei carabinieri Giovanni Cunsolo – un’ennesima «mela marcia», dirà qualcuno – per omicidio preterintenzionale a 4 anni e 6 mesi di reclusione, all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni e a risarcire i genitori e i fratelli della vittima con la somma di centomila euro.

La sera del 20 agosto 2011 aveva sferrato un violento calcio al motorino di Massimo Casalnuovo, un giovane e tranquillo meccanico 22enne di Buonabitacolo (Sa), «colpevole» di guidare senza casco e di non essersi fermato all’alt dei carabinieri della locale stazione. Massimo cade e muore. Una morte assurda e senza motivo, se non per l’ennesimo abuso di potere da parte di un uomo in divisa. Una storia di malapolizia. Al processo lampo di primo grado, svolto a porte chiuse e senza sentire i testimoni, il tribunale di Sala Consilina, poi soppresso, il 5 luglio 2013 assolve il maresciallo perché «il fatto non sussiste», nonostante il pm avesse chiesto una pena di 9 anni e 4 mesi.

La Corte di Potenza riparte da zero. All’Appello, iniziato a febbraio, il maresciallo Cunsolo non si è mai presentato in aula ma ha chiesto che il processo si svolgesse a porte chiuse. L’avvocato Cristiano Sandri, fratello di Gabriele, il giovane tifoso romano ucciso sull’autostrada da un colpo di pistola sparato da un poliziotto, chiede di sentire i testimoni, perché non è possibile un processo senza ascoltare i testimoni oculari, che vengono così interrogati per la prima volta. Il carabiniere Luca Chirichella naturalmente si trincera dietro i «non ricordo» e i «non so».

Ma gli altri ragazzi fermati quella sera riferiscono con precisione del calcio sferrato dal maresciallo, sotto la cui scarpa la polizia scientifica di Roma riscontra microparticelle della vernice blu del motorino del ragazzo, che dopo una giornata di lavoro nell’officina paterna aveva detto alla madre: «Esco per un giro». Andava lentamente nella piazza del piccolo paese, in una curva trova il posto di blocco. Forse non vede l’alt, non si ferma. Il maresciallo sferra il calcio, che fa tornare Massimo a casa in una bara. La versione ufficiale, a cui nessuno crede, afferma che il ragazzo aveva tentato di fuggire. A ragione Osvaldo, il padre, dice: «Senza quel calcio mio figlio sarebbe stato ancora vivo e non si sarebbe processato nessuno».

Il collegio giudicante entra in camera di consiglio alle 10:50, esce alle 13:15 e «con nostro grande stupore», dice una componente del Comitato, le porte si aprono anche per il pubblico. Ancora una volta Cunsolo è contumace. Con la sua condanna, un raggio di sole entra nell’infreddolita Corte d’Appello.

«Spero che la sentenza di Potenza serva da monito per tutti gli altri casi – dichiara il padre della vittima – c’è da essere contenti perché l’aria è cambiata». Ora anche i marescialli dei carabinieri vengono condannati per i loro abusi.