Dal 1961 nessun militare americano condannato alla pena capitale è mai stato giustiziato e, attualmente, solo cinque soldati si trovano nel braccio della morte nella prigione militare di Fort Leavenworth, in Kansas, dove il maggiore Nidal Malik Hasan potrebbe adesso essere trasferito dopo che una corte militare lo ha condannato a morire. Gli altri potrebbero cavarsela. Non lui. Il maggiore Hasan è uno psichiatra dell’esercito statunitense di origine palestinese ma è nato e cresciuto in America dove adesso ha molte possibilità di essere giustiziato se il presidente darà luce verde alla sentenza che ha deciso la sua morte per un’iniezione letale. Il suo caso ha suscitato molto scalpore ed è effettivamente clamoroso: lui stesso ha ammesso di essere il responsabile della morte di 13 persone inermi, uccise nella base di Fort Hood quasi quattro anni fa. E non si è affatto pentito di quello che un rapporto del Senato degli Stati uniti ha chiamato il peggiore atto di terrorismo sul suolo americano dopo l’11 settembre 2001: non solo ha ammesso i fatti ma ha rivendicato quanto ha fatto, spiegando che per lui, che si è difeso da solo, la morte non era che un mezzo per fare del suo corpo quello di un martire.

Hasan ha spiegato di aver fatto le cose in piena coscienza e in odio alle azioni militari americane nel mondo musulmano. Voleva proteggere i musulmani e gli stessi leader talebani nel mirino dell’esercito per cui lavorava. In mimetica come i suoi commilitoni, ha sparato 146 colpi a uomini e donne che strisciavano sul pavimento o si erano nascoste dietro a una scrivania. Bilancio: dodici soldati e un civile uccisi. Trentadue i feriti. Era il 2009 nella base militare di Fort Hood, in Texas.

Ai giurati sono bastate poco più di due ore per decidere la sentenza con un voto all’unanimità. Un solo voto contrario avrebbe commutato la pena in ergastolo a fronte di una colpevolezza acclarata per 45 casi di imputazione per omicidio e tentato omicidio.Quando Hasan ha sentito leggere la sentenza non ha inarcato un sopracciglio. Proprio il fatto che adesso Hasan possa passare da martire più che da assassino è il timore vero degli americani: il procuratore generale dell’esercito, colonnello Michael Mulligan, lo ha sottolineato: «Non lasciatevi ingannare – ha detto alla giuria – Lui non sta dando la sua vita, siamo noi che gliela stiamo prendendo. Questo non è il suo dono a Dio. Qui si tratta del suo debito con la società».

Il New York Times ricorda che altre condanne a morte sono state comminate da tribunali militari (come nel caso di Hasan Akbar, sergente dell’esercito americano condannato per un attacco con una granata nel suo stesso campo militare in Kuwait nel 2005) ma per gli esperti di diritto militare la vicenda del maggiore Hasan ha superato tutti per l’enormità del crimine, senza contare che rifiutare la difesa viene considerato uno schiaffo al sistema garantista dei tribunali americani. È il primo caso di questo genere negli annali recenti della giustizia militare americana. Hasan ha fatto sempre parlare di sé proprio riferendosi al suo possibile martirio: nel luglio del 2011 venne intervistato da Al Jazeera e cominciò a parlare citando versetti del Corano in cui Dio darà «lieta novella ai credenti che compiono il bene e che devono avere una giusta ricompensa».

Nel dicembre del 2010, ha detto davanti ai medici militari che se fosse morto per iniezione letale il suo sarebbe stato un martirio. Troppo chiaro e troppo evidente l’intenzione anche se queste dichiarazioni non sono poi state ammesse come prove. Difficile che Obama ribalti la scelta dei giudici. * Lettera22