Il «processo del secolo» in Corea del Sud si è chiuso con la condanna a 5 anni di reclusione per l’erede designato della dinastia Samsung. Lee Jae-yong, è stato riconosciuto colpevole di corruzione e appropriazione indebita. L’accusa aveva chiesto 12 anni, essendo la pena superiore ai 36 mesi non ci sarà alcuna sospensione ma la squadra di avvocati del delfino della famiglia il cui impero vale da solo circa un quinto del pil sudcoreano ha già annunciato l’appello. La vicenda, con ogni probabilità, arriverà quindi fino alla corte suprema.

Da febbraio Lee era in carcere nell’ambito dello scandalo che ha portato alla destituzione da capo di Stato e all’arresto di Park Geun-hye dopo settimane di proteste di piazza. Un terremoto capace di scoperchiare, qualora ci fosse stato bisogno, il rapporto tra élite politiche e chaebol, le grandi conglomerate a guida familiare protagoniste del successo economico sudcoreano, tanto da essere considerate uno dei fondamenti dell’identità stessa del Sud contrapposto al Nord dei Kim.

Tuttavia il potere accumulato negli anni dai colossi come Samsung, Hyundai e Lotte ha fatto sì che godessero di una sorta di immunità. Lo stesso vegliardo della Samsung, Lee Kun-hee, condannato nel 2008 a 7 anni di carcere, poi ridotti a tre, fu graziato nel 2009 dall’allora presidente Lee Myung-bak e riuscì tornare a capo della conglomerata, dalla quale ora è fuori per problemi al cuore.

Il figlio, vicepresidente della Samsung Electronics, ha sempre negato di aver ricevuto favori politici in cambio di finanziamenti. L’intera inchiesta ruota attorno alla figura di Choi Soon-sil, confidente e amica di vecchia data della presidentessa, che avrebbe usato la propria vicinanza alla Casa Blu per ricevere fondi dalle grandi aziende. Lee avrebbe finanziato Choi per ottenere dai fondi pensioni pubblici l’ok a un’operazione di riordino del gruppo che di fatto, data l’intricata governance, avrebbe permesso la sua ascesa al vertice aziendale.

Ci si domanda ora se il presidente Moon Jae-in, liberale e vecchio attivista per i diritti civili, cederà o meno all’ipotesi di concedere la grazia al delfino delle «Tre stelle».

L’altro aspetto della vicenda sono le ripercussioni che la condanna avrà sul processo contro Park. La sentenza è attesa entro l’anno.

Ieri intanto uno sparuto gruppo di sostenitori dell’ex presidentessa ha manifestato davanti al tribunale il proprio disappunto. Ma la maggioranza del Paese sembra guardare in un’altra direzione.