Condanna a morte in Bangladesh di mullah Abdul Kader per i crimini commessi durante la guerra di liberazione dal Pakistan nel 1971 sembra a prima vista soprattutto un’aberrazione giuridica. Il vecchio islamista ultrasessantenne che appartiene, come molti altri sui compagni di partito condannati all’ergastolo o a morte, alla Jamaat-e-Islami, l’organizzazione islamista più importante del Paese, era stato condannato alla catena perpetua per le stragi perpetrate durante la guerra civile e aveva fatto ricorso alla Corte suprema.
Ma proprio la Corte suprema, con una sentenza che per la prima volta nella storia del Bangladesh ribalta quella di un tribunale inferiore rendendola assai più dura, ha rifiutato il ricorso del mullah sull’ergastolo camminandogli la pena capitale.
La cosa è stata possibile perché, sostenuto da un forte movimento popolare, il governo laico della Lega Awami (che in parlamento gode di una fortissima maggioranza) prima ha istituito il tribunale ad hoc per i crimini del 1971, poi ha emendato la legge che ora gli consente di ricorre alla Corte suprema per chiedere, come ha fatto per il mullah, una pena più dura. Così, mentre si discuteva sull’ergastolo dell’islamista, si doveva anche decidere della richiesta del governo sulla pena di morte. A maggioranza la suprema Corte ha detto si alla proposta del governo suscitando un pandemonio.
Aberrazione giuridica? Possibile visto che il tribunale ad hoc, istituito nel 2010, è già sotto accusa per una gestione poco garantista. Ma l’aberrazione ha molto a che vedere con la politica. Non solo capi e capetti della Jamaat sono in carcere e sono stati condannati a vita o a morte, ma ad agosto l’Alta corte ha deciso che la Jamaat non ha nessun titolo per registrarsi alle liste della commissione elettorale per le elezioni del prossimo gennaio. Il partito ha fatto ricorso alla Corte suprema ma vista l’aria che tira l’esito potrebbe non essere positivo.
Il caso delle condanne e della bufera sugli islamisti è sulle prima pagine dei giornali ormai da mesi anche perché la piazza non è rimasta muta dal momento che le decisioni delle corti di giustizia sembrano motivate politicamente (pur se, come nel caso di mullah Abdul Kader, non si tratta di angioletti: guidava le forze paramilitari Al Badr contrarie alla secessione dal Pakistan col soprannome di «koshai», il macellaio di Mirpur).
La mano in effetti è stata pesantissima, come nel caso di Ghulam Azam, ex leader del partito, che all’età di 90 anni se ne è visti comminare altrettanti di galera. Una piazza in rivolta significa morti in Bangladesh: più di cento vittime sono costate le proteste da gennaio a oggi e il clima è bollente. A Chittagong ci sono già stati incidenti e gli islamisti hanno chiamato alla serrata. Quanto al mullah, non è previsto che si possa ricorrere contro una sentenza della Corte suprema. Gli resta solo il perdono del presidente.