A suo agio sia con l’uniforme militare che in giacca e cravatta. Così lo descriveva chi lo aveva conosciuto, ai tempi del rais Saddam Hussein. Tariq Aziz (al secolo Michael Yuhanna), ministro degli Esteri e vice premier dell’Iraq, è morto ieri all’età di 79 anni, ucciso da un infarto nella cella della prigione irachena in cui si trovava da 12 anni.

Per alcuni era la faccia diplomatica del regime di Saddam, come veniva dipinto nel 2003, quando tentò ogni mezzo politico per impedire l’invasione del paese. Per altri, per l’amministrazione Bush che lanciò la crociata contro il terrore aprendo l’inevitabile vaso di pandora dei settarismi mediorientali, era l’8 di picche. Carta del famigerato mazzo che la Casa Bianca usò per giustificare agli occhi di un mondo scettico un attacco catastrofico, di cui oggi l’intera regione paga le spese. A suo modo, Aziz lo aveva previsto: nel dicembre 2002, poco prima dello scoppio della seconda Guerra del Golfo, all’Onu disse che quello che Washington stava cercando non era un cambio di regime, ma «una trasformazione regionale».

Aziz, braccio destro di Saddam fin dagli anni ’50 quando il partito Baath mosse i primi passi in Iraq, se ne è andato con una condanna a morte che gli pendeva sul capo ma mai eseguita, emessa dalla Corte Suprema irachena nel 2010. L’anno prima era stato condannato a 15 anni di prigione per l’omicidio di 42 commercianti (risalente al 1992) e ad altri 7 anni per l’espulsione dei kurdi dall’Iraq del nord.

Oltre alle accuse di crimini contro l’umanità, si è aggiunta quella (per lui greco di origine e cristiano di fede) di aver perseguitato i partiti di matrice religiosa. Una peculiarità del partito Baath, movimento laico, nazionalista, panarabista e socialista, che ha sempre visto nei settarismi religiosi una minaccia all’unità nazionale e, di conseguenza, al controllo del potere centrale.

Con Tariq Aziz scompare così uno degli ultimi retaggi di un regime che – con una vasta rete clientale, la distribuzione controllata del potere economico e la repressione – seppe tenere insieme un paese diviso tra etnie, religioni e tribù. La stella di Aziz era caduta già nel 2003: il 24 aprile, un mese dopo l’invasione, si arrese alle truppe Usa poco dopo la caduta di Baghdad. Con un colpo di coda aveva tentato pochi mesi di evitare l’occupazione dell’Iraq presentandosi in Vaticano da papa Giovanni Paolo II.

Da portavoce all’estero di Hussein si è trasformato in prigioniero in uniforme arancione in un carcere per 3mila detenuti, molti criminali comuni. È la prigione di Karkh, a Baghdad, durante l’invasione Usa ribattezzata Camp Cropper. Qui Saddam ha atteso di essere giustiziato. Nel 2010 è passato dal controllo dell’esercito Usa a quello del governo iracheno, che ne ha ampliato la capacità.

Un luogo dove non si immaginerebbe di trovare ex leader del partito Baath e consiglieri di Saddam. Un carcere quasi impossibile da visitare, che apre solo alla Croce Rossa: così la nuova Baghdad ha messo fine al vecchio regime, chiudendolo in una prigione ai limiti del segreto.

Seppur dietro le sbarre, Aziz non ha smesso di parlare. Già alla fine del 2004, la Nbc riportò le sue accuse a diplomatici francesi, statunitensi e russi per essersi intascati tangenti, denaro del programma Onu “Oil for Food”, creato per dare sollievo ad una popolazione strangolata dal folle embargo della comunità internazionale.

Nel 2010 in un’intervista a Martin Chulov del The Guardian, Aziz ha lasciato il suo testamento politico e previsto il destino del suo paese: «Per 30 anni Saddam ha costruito l’Iraq, ora è tutto distrutto. C’è gente malata come mai prima, gente affamata. Non hanno servizi. Vengono uccisi ogni giorno a decine, se non a centinaia. Sono tutte vittime dell’America e della Gran Bretagna. Hanno ucciso il nostro paese».

Un paese diviso dai settarismi interni e dall’avanzata dell’Isis, frutto delle strategie Usa e delle loro armi: ieri un nuovo video mostrava i jihadisti nel villaggio di Karmah, a est di Fallujah, con armi e lanciagranate di fabbricazione Usa e a bordo di veicoli blindati Humvees.

La battaglia per il controllo di Karmah è cominciata poco dopo la conquista del capoluogo di provincia di Anbar, Ramadi. Dove tutto sembra fermo: la controffensiva promessa da Baghdad non porta risultati, se non la riconquista di alcuni villaggi vicini. Agli scarsi sforzi delle truppe si aggiunge il limitato supporto aereo Usa che dal 23 maggio a oggi hanno lanciato solo 17 raid contro postazioni Isis a Ramadi.