«Con Mike Pompeo al capo del Dipartimento di Stato l’America latina tornerà come protagonista nell’agenda degli Stati Uniti. Tillerson semplicemente è stato assente in problemi urgenti della regione, come il Venezuela».

Il parere di John Freeley – fino al mese scorso ambasciatore statunitense a Panama – è condiviso da vari suoi colleghi e analisti: in questioni come il Venezuela, il Tlcan (L’Accordo nordamericano per il libero scambio commerciale tra Stati Uniti, Canada e Messico) e l’immigrazione «gli Stati uniti faranno valere il loro peso».

In quale direzione è facile prevederlo visto che in gennaio – quando era a capo della Cia – in una conferenza Pompeo affermò che varie sanzioni adottate dal presidente Trump negli ultimi mesi contro «il regime di Nicolás Maduro obbedivano alle nostre raccomandazioni». Una linea dura dunque. In piena sintonia con la dottrina Monroe recentemente rispolverata, ovvero l’ingerenza degli Usa negli affari dell’America latina.

Il senatore cubano-americano Marco Rubio, capofila dei falchi repubblicani, ha votato a favore della nomina di Pompeo, asserendo di essersi sentito in più occasioni frustrato da come il Dipartimento di Stato sotto la guida di Tillerson e della sua «mano destra» – il responsabile degli affari politici Thomas Shannon – avevano trattato il tema del Venezuela.

Rubio ha informato di aver programmato di lavorare con l’ex direttore della Cia per «promuovere gli interessi strategici Usa in America latina e affrontare la crisi umanitaria in Venezuela».

Si tratta di una linea condivisa dai rappresentanti della diplomazia statunitense nel subcontinente che nei mesi scorsi, in più occasioni, avevano espresso la loro frustrazione per il fatto che le divergenze tra Tillerson e il presidente indebolissero la loro posizione e dunque la capacità degli Usa di influenzare le politiche locali.

«La cosa più importante è che il Dipartimento di Stato guadagna un leader vicino al presidente e che ne condivide la linea e il modo di esprimersi. Questa è la chiave» per un cambiamento di atteggiamento, ha commentato Benjamin Gedan, ex direttore del settore America del sud nel Consiglio di sicurezza nazionale. Il quale si augura che «gli interessi della nostra politica globale tornino a prevalere» in America latina e che si inauguri «una nuova tappa nelle relazioni» del presidente Trump e i «vicini del sud».

Questa linea si vedrà alla prova a metà aprile in occasione del Vertice delle Americhe che avrà luogo a Lima e che affronterà una serie di questioni strategiche in primis quella venezuelana. «Il Venezuela è un rischio per gli Usa perché lì vi sono cubani, russi, iraniani e hezbollah. Vi è il rischio che diventi un luogo assai pericoloso e dunque gli Stati uniti devono affrontarlo molto seriamente», aveva dichiarato Pompeo lo scorso agosto. Una posizione, sottolinea Gedan, «in piena sintonia con Trump» come pure in altri problemi che riguardano «il sud della nostra frontiera: Messico, America centrale e Sudamerica».

Data la storia della politica della Cia in America latina – tristemente segnata da golpe militari contro governi democratici o progressisti – non vi è da stupirsi che la nomina di Pompeo sia stata accolta con sospetti e critiche da parte dei vertici politici di Venezuela, Nicaragua, Bolivia e Cuba. Come pure dai movimenti progressisti del subcontinente.

In particolare a Caracas si teme che il nuovo capo del Dipartimento di Stato aumenterà le sanzioni contro il settore petrolifero venezuelano, fatto che avrebbe ripercussioni tragiche sull’economia del paese e dunque sarebbe un duro colpo per il governo del presidente Maduro.

«È una possibilità concreta», sostiene Roger Noriega che fu responsabile della politica latinoamericana durante la seconda presidenza di George W. Bush. «La sintonia col presidente Trump pone le premesse perché Pompeo attui una politica più dura in temi come droga, immigrazione, sicurezza e soprattutto Venezuela», sostiene.

Anche all’Avana si guarda con preoccupazione alla nomina di Pompeo in una fase assai delicata della politica dell’isola, che si appresta a vivere un cambio generazionale al vertice politico quando il 19 aprile Raúl Castro lascerà la presidenza. Toccherà infatti al nuovo segretario di Stato decidere se «riaprire» le porte dell’Ambasciata Usa all’Avana, praticamente paralizzata dal settembre 2017 con la scusa del pericolo di (mai provati) «attacchi acustici» al personale diplomatico nordamericano.

Le premesse non sono buone, sostiene lo storico Enrique Lopez Oliva: «Nel 2005 Pompeo fu uno dei firmatari del “Cuban Military Transparency Act” come parte di un’iniziativa del senatore Rubio per limitare l’intercambio finanziario con imprese cubane sotto gestione dei militari. La proposta non riuscì a diventare legge. Ma le misure che proponeva sono identiche a quelle decise lo scorso giugno dal presidente Trump per imporre un drastico taglio al commercio con Cuba».