La notizia della morte di Pino Pelosi al Gemelli di Roma, 59 anni, malato di tumore, non è di quelle che possano dar «gioia» ovviamente, ma neanche soverchio dolore.

Protagonista, o comprimario, o anche semplice sicario-civetta di uno degli avvenimenti più sanguinosi e crudeli della cultura del novecento, l’assassinio di Pier Paolo Pasolini, Pelosi detto affettuosamente «er rana» dai suoi amici malavitosi del Tiburtino, è stato per quel delitto condannato e poi parzialmente assolto dalla giustizia, ha cambiato diverse volte la sua versione dei fatti orrendi all’Idroscalo di Ostia, ha detto di aver agito da solo per pura «ripicca» di ruolo sessuale, ma ultimamente ammetteva di non essere stato solo quella notte di sangue: una moto, le altre macchine, i due fratelli killer. Dopo la cena che si era fatto offrire dal poeta al Biondo Tevere, è cresciuto un polverone smisurato di bugie e simmetriche rivelazioni.

Che non fosse solo è stato provato dalle indagini per le quali Laura Betti, la grande amica di Pier Paolo, ha dato praticamente la vita, e anche in alcuni gironi giudiziari di questo estenuante rondò con la verità. A leggere il romanzo incompiuto di Pasolini, Petrolio, è evidente che il poeta stesse frugando in un pentolone di affari sporchi, petroliferi e non solo.

Molti, a cominciare da avvocati e giuristi, ritengono compatibile con quei «misteri» la condanna a morte dello scrittore, un servizio che per definizione deve restare «segreto».
Certo Pelosi,tra rivelazioni e smentite, era rimasto l’unica ma insufficiente chiave di accesso a quel doloroso mistero. Ma, per scelta o costretto, rimarrà per sempre semplicemente «er rana».