«In Italia – sosteneva il grande liberale Ernesto Rossi – esiste un solo grande partito organizzato, ed è quello della Confederazione generale dell’Industria». Passata la nottata della Prima Repubblica, durante la quale il potere di questo partito, se non totalmente ridimensionato, era stato comunque conteso, agli albori della Terza esso torna a dispiegare in pieno il suo potere.

In pieno conflitto di interessi (una categoria ormai patentemente demodé) un suo esponente di spicco, ancorché “rosa”, siede al ministero dello sviluppo. Più in generale, nessuno più si sogna di contestare la centralità dell’impresa nello sviluppo del paese: ciò che va bene per le aziende va bene per l’Italia, è il refrain dominante, refrattario ad ogni smentita della logica. La ciliegina sulla torta l’ha ora aggiunta il governo Renzi, con la nomina dell’ex presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ai vertici della più importante azienda pubblica del paese, l’Eni.

Tralasciamo il dato di fatto, di per sé sconcertante, dell’intrico affaristico-giudiziario che pesa sulla nomina. Il punto centrale è che questa vera e propria invasione di campo da parte del Partito unico della Confederazione degli industriali, pur ingentilito dalla maschera della quota rosa, dovrebbe far riflettere ciò che resta della sinistra sul rapporto esistente tra impresa pubblica ed interesse privato. Se analizzata in questa luce, la nomina di Marcegaglia costituisce un vero e proprio schiaffo nei confronti della storia della sinistra italiana.

La Repubblica ereditò dal crollo del fascismo un sistema articolato di imprese pubbliche, che il regime aveva pezzo a pezzo costituito in maniera disorganica, quasi obtorto collo, in seguito ai grandi crack che coinvolsero anche il nostro sistema produttivo nel corso della Grande Depressione. Già durante il primo quinquennio repubblicano le sinistre dettero battaglia non tanto per difendere, quanto per ampliare le prerogative del sistema delle Partecipazioni Statali, e indirizzarle a fini di sviluppo equilibrato sul territorio. Da par suo, parte consistente del mondo industriale e finanziario italiano, con solidi addentellati all’interno del gruppo dirigente democristiano (oltre che nel Partito liberale), vedeva di buon occhio invece lo smantellamento del sistema, potendosi permettere oltretutto, considerate le sue origini, di ammantare la propria battaglia di un antifascismo invero superficiale. Se il fascismo era stato statalista – era l’argomentazione di Angelo Costa e dei suoi corifei – la Repubblica non poteva che nascere liberista.

Perduta la battaglia per lo smantellamento dell’industria pubblica, certo per l’opposizione delle sinistre, ma anche in seguito al revirement che la generazione fanfaniana di dirigenti dc impresse in questa materia al partito cattolico, i gruppi dirigenti tradizionali condussero una sotterranea opera di subordinazione agli interessi privati del sistema delle partecipazioni statali. In settori decisivi quali, fra tutti, la chimica e l’estrazione, a fare da padroni nel dettare gli indirizzi alle aziende pubbliche furono i grandi interessi monopolistici, Fiat, Edison e Montecatini in testa.

Il vento mutò con l’approssimarsi, e poi con l’effettiva realizzazione, del centro-sinistra. Nel campo del movimento operaio, della democrazia laica e dello stesso partito cattolico, personalità come Riccardo Lombardi, Ugo La Malfa e Giulio Pastore festeggiarono come una vittoria lo scorporo dalla Confindustria delle aziende controllate da Iri ed Eni (1957), una misura vista come fumo negli occhi dall’establishment industriale e finanziario del Paese, che vi si oppose con la nobilitante copertura dell’allora presidente della Banca d’Italia Guido Carli. Fu lo stesso conglomerato che, a distanza di pochi anni, si oppose fieramente (ma invano) alla nazionalizzazione delle aziende erogatrici di energia elettrica, e che riuscì a sventare la messa in campo di una moderna regolamentazione dello sviluppo urbanistico.

Ma cosa c’era alla base di quella battaglia “statalista” condotta dalla sinistra? In una Italia povera di capitali, era il ragionamento, e condizionata da un modello di sviluppo che, se lasciato al libero gioco del mercato, avrebbe inesorabilmente aumentato il “dualismo” tra aree progredite ed aree sottosviluppate del paese, l’iniziativa pubblica appariva decisiva per imprimere diverse modalità di crescita agraria ed industriale alla penisola nella sua interezza. In questo panorama, il ruolo delle aziende pubbliche era visto come necessariamente – non ideologicamente – confliggente con l’interesse privato. Lo Stato dunque, agendo da imprenditore, era chiamato, più che a supplire temporaneamente alle deficienze dell’industria privata, o ad agire in funzione ad essa ancillare, ad operare in maniera diretta ed autonoma per superare le storture di lungo periodo del nostro apparato produttivo.

Riflettendo sui casi nostri degli ultimi vent’anni, c’è da ripensare a quanto ancora rimane di valido in quello schema interpretativo e nella proposta politica che lì traeva le proprie scaturigini. Ora che il fallimento dell’ondata privatista è sotto gli occhi di tutti, c’è da pensare che i gruppi dirigenti, che quell’ondata si sono dimostrati incapaci di cavalcare, siano più che altro interessati a subordinare a fini privatisti ciò che di sano rimane nel nostro apparato produttivo pubblico. La nomina di Marcegaglia va inesorabilmente in questa direzione.

Il rilancio della proposta politica della sinistra, invece, passa anche dalla riproposizione, in un quadro certo mutato, di un intervento pubblico svincolato da fini particolaristici, e teso alla definizione di un nuovo ed alternativo modello di sviluppo.