Mustafa Adib Abdul Wahed è il nuovo primo ministro libanese. Con 90 voti su 120, il parlamento gli ha dato ieri mandato di costituire il governo che sostituirà quello del dimissionario Diab. Quest’ultimo aveva rinunciato dopo neanche sette mesi di incarico in seguito all’esplosione che ha devastato Beirut circa un mese fa e causato quasi 200 morti e 7mila feriti.

Il 10 agosto, nel suo discorso alla nazione in cui annunciava le sue dimissioni, Diab aveva tuonato contro «la corruzione (che) è più grande dello Stato» e che non aveva permesso al suo governo di riformare il paese. Una chiosa però troppo affettata, visto che il suo governo era espressione della stessa classe politica che le rivolte cominciate il 17 ottobre scorso avrebbero voluto destituita.

Adib – anagramma di Diab, nomem omen verrebbe da pensare – è come il predecessore un accademico non particolarmente conosciuto in Libano e tra gli uomini della cerchia dell’ex premier e miliardario Najib Mikati (di cui è stato consulente dal 2000 al 2004), influente e contestato personaggio politico di Tripoli, di cui è originario anche il 48enne neo premier.

Dottorato in Scienze politiche a Montpellier, sunnita come richiede il confessionalismo libanese, svolge la sua carriera accademica tra Francia e Libano, prima di diventare nel 2013 ambasciatore libanese in Germania.

A differenza di Diab, Adib ha ricevuto il sostegno dell’ex premier e capo del Movimento Futuro Saad Hariri. Contrari alla sua elezione le Forze Libanesi della destra conservatrice cristiana di Geagea, che hanno votato per il giudice della Corte internazionale Nawaf Salam.

Contrari pure i gruppi di attivisti politici che vedono in Adib la continuazione della linea già tracciata con Diab, un cambiamento che non cambia niente perché non intacca l’avversata struttura di potere che conserva e rafforza se stessa.

«Abbiamo bisogno di un nuovo governo in tempi stretti, di implementare riforme da subito a partire da un accordo con il Fondo monetario internazionale. Con l’aiuto di Dio, avremo successo nella selezione di professionisti di provata esperienza ed efficienza che dovranno implementare le riforme economiche e finanziarie necessarie», ha dichiarato ieri Adib, che subito dopo essere stato eletto ha visitato il quartiere di Gemmayze, tra i più devastati dall’esplosione, dove è stato contestato da alcuni attivisti e cittadini che gli gridavano contro gli slogan della rivolta.

Ieri sera è arrivato a Beirut il presidente francese Macron per la seconda volta dall’esplosione e certamente non è casuale la coincidenza dei due eventi.

Macron, a capo della commissione che ha accordato 253 milioni di euro di aiuti umanitari a condizione di riformare il paese, ha recentemente proposto un nuovo Patto politico, terminologia che richiama il Patto nazionale, 1943, data dell’indipendenza dalla Francia, con cui si stabiliva la natura confessionale del parlamento libanese e la ratio di 6:5 cristiani-musulmani, modificata nel 1989 con gli accordi di Taif (5:5), che privilegia gli interessi dei cristiani maroniti, e quindi della Francia a cui sono strettamente legati, sul resto delle comunità libanesi.

Hezbollah e Amal, rappresentanti della comunità sciita, si dicono favorevoli a un nuovo patto. A tale proposto Nabih Berri, leader di Amal e terza carica dello Stato, nel 42esimo anniversario della misteriosa scomparsa in Libia del fondatore di Amal, l’imam Musa al-Sadr, ha definito il settarismo un «male incurabile. (…) Il Libano dovrebbe andare nella direzione di uno Stato civile e di una legge elettorale non settaria».

Intanto la situazione economica e sociale è sempre più insostenibile e ieri si sono registrati altri 432 casi di Covid e sette morti. Adib ha dichiarato che non c’è più «tempo per discussioni e promesse, ma ora è il momento di lavorare». Il punto è a vantaggio di chi.