Era l’inizio dell’ottobre 1984. Di lì a pochi giorni, il presidente del consiglio Bettino Craxi avrebbe presentato un decreto-legge d’urgenza, poi noto come decreto Berlusconi, per consentire alle reti televisive Fininvest di riprendere su tutto il territorio nazionale le trasmissioni, in precedenza oscurate. Ma di questo fatto, e degli effetti che avrebbe avuto in Italia, si sapeva poco o nulla, quando nelle edicole approdò un nuovo periodico, L’indice dei libri del mese, che nelle recensioni delle uscite editoriali aveva il suo perno. «Fu subito un boom», commenta oggi Gian Giacomo Migone, che di quella impresa è stato l’ideatore e che domani a Roma, presso l’Accademia dei Lincei, prenderà parte a un convegno dedicato alla storia della testata, ma anche – anzi di più – al suo futuro, in un panorama tanto diverso da quello delle origini.

Una storia che si intreccia, almeno all’inizio, con quella del «manifesto»…
In effetti già negli anni Settanta, quando Rossana Rossanda e io ci occupavamo degli affari internazionali per il Pdup, ci capitava di notare come in Italia non esistesse una rivista di recensioni sul modello della New York Review of Books, e soprattutto come qui mancasse una politica della recensione, che andasse oltre il semplice lancio di un nuovo titolo. Quelli che avevamo in mente erano articoli da affidare a persone competenti, non legate in rapporto diretto agli autori del libro trattato, che ne potessero scrivere a partire da tre elementi precisi: una presentazione del contenuto del testo, un giudizio articolato, una serie di spunti che allargassero l’orizzonte della lettura. Se ne parlava spesso, e quando una decina d’anni dopo ripresi in mano il progetto, fu Rossanda che chiamai subito. Lei venne a Torino, ne discutemmo, ma l’ipotesi di un’uscita congiunta con il quotidiano fu scartata e si optò per una mediazione: saremmo usciti in modo indipendente, ma della distribuzione della nuova testata si sarebbe occupato il manifesto, da cui ereditammo anche un amministratore eccezionale, Filippo Maone, e il primo caporedattore, Loris Campetti (allora corrispondente da Torino del quotidiano), in seguito sostituito da Eliana Bouchard.

Come vennero scelti i collaboratori dell’«Indice» in quella prima fase?
Un punto essenziale, per noi che avevamo dato vita alla testata, era la sua laicità, e con questo non intendo il culto astratto della Dea Ragione. A noi premeva invece un pluralismo laico, che – come sintetizzò bene il grande storico dell’arte Enrico Castelnuovo, una delle figure che hanno maggiormente contribuito alla vita dell’Indice nei primi anni – si fondasse su due criteri: indipendenza e competenza. Dello stesso avviso era Cesare Cases che fu da subito con noi e che da poco era uscito scottato dall’esperienza dei Quaderni piacentini, dall’idea dei «libri da leggere» e «da non leggere». Non dimentichiamo che L’indice nacque in parallelo con la crisi di Einaudi e che i fermenti e le discussioni dei mercoledì einaudiani si spostarono nelle riunioni del mensile. Discussioni accesissime: dopo il primo numero, dove uscirono due editoriali, uno a firma di Cases e uno mio, decidemmo che ci sarebbe stato un solo editoriale, coincidente con la recensione del libro del mese, e sulla scelta di questo titolo ricordo grandi scontri nei quali più volte io, che fui direttore della testata per i primi sei anni, finii in minoranza.
A proposito di questi conflitti, per dare un’idea del clima di discussione, potrei citare una mia lunga recensione al libro di Giorgio Galli Storia del partito armato, in cui si sosteneva che di fatto c’era stato un consolidamento della classe dirigente a opera delle Brigate Rosse, una posizione molto diversa da quella di Rossana Rossanda… Ma tornando ai collaboratori, era importante per noi aprirci ad altre culture: per questo chiedemmo recensioni a figure con una visione politica non coincidente con la nostra, come Guido Carli o Giovanni Malagodi. Non volevamo che il lettore che non si riconosceva nelle nostre posizioni politiche ci percepisse come nemici, ma va detto che a quel tempo una posizione di questo tipo era più semplice, perché nessuno metteva in dubbio l’egemonia della cultura di sinistra. Già allora, e fino ad oggi, L’indice ha poi considerato essenziale aprire le proprie pagine a collaboratori giovani, che forniscano idee e prospettive nuove, sempre mantenendo fermi i punti dell’indipendenza e della competenza.

Sulla funzione della recensione molti ricordano ancora, sul primo numero, l’editoriale di Cesare Cases, in seguito – dal 1990 al 1994 – anche direttore della testata…
La recensione, come la intendeva Cases, come la intendiamo tuttora, deve in primo luogo rendere un servizio al lettore: «in principio era il riassunto», c’era scritto in quell’editoriale, ed è una regola a cui la rivista continua ad attenersi. Per lo stesso motivo è importante valorizzare quello che esce e che magari non ha avuto la giusta attenzione: proprio Cases aveva ideato una rubrica, Il salvagente, per dare spazio a titoli passati immeritatamente sotto silenzio. Per lui dovevamo esaltare quello che di prezioso offriva la produzione editoriale, e sempre in quell’articolo aveva parlato della rivista come di un jardin des beautés. Questa impostazione tuttavia non deve escludere la possibilità di recensire negativamente un libro: non intendo con questo le stroncature alla Papini, a suon di fendenti, ma ci sono testi sui quali una valutazione che ne metta in rilievo i limiti consente di uscire dagli stereotipi dominanti. Ne ho giusto ora uno sul tavolo, in cui vengono descritti come eroi i marò italiani che in India hanno ucciso dei pescatori…

Nella voce di Wikipedia dedicata all’«Indice», si sottolinea una sostanziale fedeltà alla linea iniziale. Secondo lei cosa si è mantenuto e cosa è cambiato rispetto all’ormai lontano 1984?
In primo luogo, un aspetto a cui ci siamo mantenuti fedeli all’impostazione iniziale è la massima apertura riguardo ai temi che vengono trattati dalla rivista. Per quanto a volte sia difficile, L’indice ha sempre cercato di parlare della cultura a 360 gradi, includendo interventi sulle scienze «dure», come matematica e fisica, e proponendo testi di economia, di storia, di politica e di economia.

Non a caso Mimmo Càndito, un grande giornalista noto soprattutto come corrispondente di guerra, è stato a lungo direttore della testata, dal 2001 fino a quando è mancato, nel 2018.
Già prima di Càndito abbiamo avuto come direttori dei giornalisti, ma il suo ruolo è stato indubbiamente cruciale, anche perché negli anni in cui lui ha diretto L’indice, è avvenuto un cambiamento che ha investito non solo la nostra testata, ma tutta la società: il ruolo crescente del digitale. Càndito se n’è accorto subito, e ricordo un seminario in cui ci ha «inchiodato» per un’ora sui vari aspetti della rivoluzione in corso. Allora forse non eravamo pronti, ma con il passare del tempo ci siamo attrezzati.

In che modo «L’indice» oggi fa fronte alle trasformazioni del mondo della comunicazione, in campo culturale e non solo?
È evidente che ci troviamo davanti a una sfida. Restiamo convinti che abbandonare la carta sarebbe un errore e che non è possibile capire il presente e programmare il futuro, se mancano i riferimenti del passato. In questo senso, mi pare che la concomitanza del nostro convegno con la Giornata della memoria non sia casuale. Al tempo stesso, pensiamo che sia necessario allargare il nostro raggio di azione sfruttando le enormi opportunità offerte dal digitale. Grazie all’azione dell’attuale direttore Massimo Vallerani e della caporedattrice Tiziana Magone, il sito del mensile si è rafforzato e L’indice, su carta e online, propone nell’arco dell’anno diversi speciali collegati alle manifestazioni culturali di maggiore rilievo. Molto resta da fare: per esempio, ci piacerebbe attivare, insieme ad altre testate, una piattaforma dove i lettori possano trovare gli interventi più importanti usciti in Italia nel campo della cultura. È uno degli obiettivi della Fondazione Index, in via di realizzazione: ne parleremo nel corso del convegno.

Fra le nuove aperture della rivista c’è anche quella verso i bambini…
Proprio così. Fra le imprese recenti di cui siamo più orgogliosi c’è la nascita del supplemento Il mignolo, diretto da Sara Marconi, una bravissima autrice di libri per ragazzi. Già dai primi numeri abbiamo ricevuto commenti positivi, e questo ci rallegra: è la dimostrazione che, nonostante tutto, nuove generazioni di lettori crescono.

 

IL CONVEGNO

Il 27 gennaio presso Palazzo Corsini (via della Lungara 10, Roma, ore 17, partecipazione libera fino a esaurimento posti, segnalare la presenza a: piemontese@lincei.it) l’Accademia dei Lincei presiederà al convegno intitolato La rivista ’L’Indice’. 35 anni di cultura italiana (nel ricordo di alcuni fondatori: Enrico Castelnuovo, Tullio Regge, Aldo Fasolo). Scopo dell’incontro sarà quello di illustrare una nuova fase della vita della rivista, usandola come esempio delle sfide, ma anche delle difficoltà insite nella ricerca di un rinnovato rapporto della cultura con la società, l’economia e la politica italiana. Fra i relatori, Enrico Alleva, Gian Luigi Beccaria, Gian Giacomo Migone, Luca Pietromarchi, Massimo Vallerani, Gabriele Lolli, Mario Montalcini, Andrea Pagliardi, Marco Boglione, Tomaso Greco, Marinella Venegoni.