In Parlamento Enrico Letta aveva suonato la musica celeste dei sogni. Il rapporto Ocse e a ruota, sia pur in termini meno rigidi, il ministro dell’Economia Saccomanni battono invece il ritmo arcigno delle nude cifre e degli obblighi soffocanti. Così, a pochi giorni dalla sua fortunosa nascita, emerge in piena luce la contraddizione intrinseca di un governo che pretende di fare due cose opposte: proseguire nella politica del rigore di Monti e sterzare drasticamente rispetto alla medesima.

La sentenza dell’Ocse è sintetica e tassativa: «È impossibile per il momento ridurre in modo significativo il livello dell’imposizione». Al Senato, Saccomanni è altrettanto secco: «Il riferimento a possibili rinegoziazioni dei margini con la Ue è allo stato da non prendere in considerazione». L’ostacolo invalicabile, spiega il ministro, è la chiusura o meno della procedura d’infrazione contro l’Italia.

[do action=”citazione”]Rigore e crescita, missione impossibile tra gli ultimatum di Berlusconi e il richiamo all’austerità[/do]

Dovrebbe finire il 29 maggio, ma le cifre, nonostante nel 2012 l’Italia sia rimasta sotto il tetto del 3% nel rapporto debito/Pil, non sono rassicuranti. Secondo le previsioni, quest’anno l’Italia dovrebbe arrivare sul confine, al 2,9%. Una previsione del genere significa sforamento quasi certo. La Germania potrebbe di conseguenza puntare i piedi e chiedere di sospendere la chiusura della procedura fino a ottobre. Per il governo Letta sarebbe una condanna a morte.

In definitiva, proprio questo è lo scopo principale della missione di Letta, chiedere comunque all’Europa la regolare chiusura della procedura a fine mese. È probabile che abbia successo e Saccomanni ne pare anzi già certo. Lo si capirà oggi, quando Bruxelles renderà note le stime sulla situazione dei conti italiani. È però evidente che chiedere di chiudere un occhio e allo stesso tempo rinegoziare i margini, cioè rinviare di un paio d’anni il rientro stabile nel parametro del 3% non è possibile. In questa condizione Letta deve quindi arrampicarsi sugli specchi e impegnarsi a fare tutto e il contrario di tutto: «Dobbiamo fare in modo che, in prospettiva, la pressione fiscale scenda e ci sia più dinamismo senza sfasciare i conti pubblici e senza alcun rilassamento».

Coniugare rigore e crescita sarebbe una missione impossibile comunque. Tanto più lo è con la pistola di Berlusconi, che reclama la cancellazione dell’Imu, puntata alla tempia. Secondo Saccomanni la chiusura della procedura sbloccherà una dozzina di miliardi, che però non sono affatto sufficienti a coprire le esigenze ultimative di Berlusconi e le ambiziose promesse di Letta. Lo stesso ministro, in effetti, dedica all’Imu un passaggio che suona quasi formula d’obbligo e persino sugli esodati e sulla proroga dei fondi per le casse integrazione in deroga suona ben più prudente di Letta: priorità assolute, per carità, però «non possono essere assunti provvedimenti improvvisati». Per chi conosce il politichese: non è un messaggio tranquillizzante.

Se Saccomanni almeno cita l’intervento sull’Imu, Pier Carlo Padoan, capo economista dell’Ocse, è più brutale: «La riduzione delle tasse sul lavoro è più importante dell’Imu», e Mario Monti rincara: «L’Imu è rilevante ma non degno della considerazione morbosa e quasi esclusiva del dibattito politico».

Per Berlusconi, invece, il merito di tanta morbosità c’è tutto. Sin qui ha guidato una campagna vittoriosa, ma se non portasse a casa la cancellazione dell’Imu si trasformerebbe in rovinosa sconfitta. Solo che, come il dibattito rimbalzato oggi da una parte all’altra d’Europa esplicita, quadrare il cerchio non sarà possibile. Senza rinegoziazione con l’Europa i fondi a disposizione saranno molto scarsi. Se si vuole combattere la recessione buona parte di quei fondi dovrà essere investita per diminuire Irap e cuneo fiscale. La priorità dell’Imu, che è in buona parte politica, dovrebbe pertanto scivolare ben più in basso nella lista delle urgenze, il che per Berlusconi è inaccettabile. È in questa micidiale tagliola che Letta inizia a dibattersi già dai suoi primi passi come presidente del consiglio.