Sono passati sei anni dai sit-in silenziosi in cui migliaia di egiziani, senza bisogno di slogan e cartelli, vestivano i panni di Khaled Said, giovane pestato e torturato a morte nel 2010 dalla polizia egiziana dell’allora dittatore Mubarak.

A convogliare la rabbia per decenni di oppressione fu una pagina Facebook, “We are all Khaled Said”. Dietro stava un giovanissimo blogger, Abdelrahman Mansour. Oggi pomeriggio Abdelrahman, che dal golpe del 2013 vive all’estero e oggi studia all’Università dell’Illinois, parteciperà ad una conferenza stampa alla Camera dei Deputati insieme ad Amnesty International e Arci.

In molti ti hanno definito la mente dietro la rivoluzione del 2011 e visto nella tua pagina Facebook il catalizzatore della rabbia popolare contro Mubarak. Perché quella pagina ebbe tanto successo?

Sono tre i fattori che hanno fatto di Khaled l’esempio della repressione. Perché la sua storia era simile a quella di milioni di giovani egiziani e parzialmente diversa da quella di attivisti politici uccisi dallo Stato. Navigava su internet, ascoltava musica: era un ragazzo normale. Per l’insistenza della famiglia, in particolare della madre di Khaled che ha fatto pressioni perché la verità emergesse. E infine per ragioni politiche: i social media erano diventati in quel periodo storico il solo spazio di espressione politica dei giovani egiziani. Se prima a garantirlo in qualche modo erano i partiti, dopo sono stati gli stessi partiti a entrare nel nuovo spazio virtuale: alle iniziative organizzate online hanno preso parte personaggi come el-Baradei e quattro dei candidati alle presidenziali post-Tahrir.

L’uso di internet, nel 2011, fu sopravvalutato dall’Occidente che parlò di una rivoluzione nata sui social. Una visione erronea sia per il ridotto accesso alla rete della maggioranza degli egiziani, sia perché sembrava il tentativo di “occidentalizzare” quella protesta

È così. La narrazione occidentale per cui le primavere arabe furono un prodotto della rete è servita a limitare il fenomeno, a trattarlo con superficialità semplificandolo all’estremo. Una visione facile da vendere e che copriva le responsabilità occidentali: porre l’attenzione sui social network ha permesso ai governi occidentali che hanno per decenni sostenuto quei regimi dittatoriali di purificarsi l’anima, di allontanare da sé le responsabilità morali della nostra oppressione. Internet è sì stato utile a fini organizzativi proprio per l’assenza di altri luoghi politici di espressione, ma è stato solo uno spazio virtuale che ha aperto la strada a quello reale, alla piazza.

Le rivoluzioni arabe in questo senso non sono altro che parte di un fenomeno più ampio, globale, contro regimi diversi dalle Americhe all’Europa al Medio Oriente. Il movimento egiziano è ancora vivo, in fieri, parte integrante delle proteste dei giovani in paesi diversi contro decenni di ingiustizie mascherate con la definizione occidentale del concetto di democrazia. Da noi quel concetto si traduce nel sostegno ad al-Sisi che riceve armi in abbondanza e moderni sistemi di spionaggio.

Oggi a tre anni dal golpe di al-Sisi le proteste che stanno rinascendo – dagli studenti ai giornalisti fino alle manifestazioni a sud per l’acqua – possono portare ad un nuovo cambiamento?

Le proteste di oggi sono la continuazione di quelle del 2011. Ma per comprenderle dobbiamo fare una distinzione tra le due diverse forme di resistenza scaturite dai due regimi, quello di Mubarak e quello di al-Sisi: l’arte della presenza e l’arte dell’assenza. La dittatura di Mubarak aveva lasciato spazi seppur minimi di organizzazione politica, sfruttati dalla gente per esprimersi: la protesta era presente, visibile. Con al-Sisi il regime è cambiato, si è chiuso ermeticamente soffocando le spinte della base. Per questo oggi prevale quella che chiamo l’arte dell’assenza come forma di resistenza: invisibile, sotterranea, e per questo sottovalutata dal regime che resterà sorpreso dalla sua esplosione. Sempre più spesso nascono gruppi di cittadini che lavorano underground su questioni diverse, dall’educazione alla salute. Un esempio: quando centinaia di giovani sono stati arrestati per le manifestazioni contro la cessione delle isole Tiran e Sanafir, la gente ha donato di nascosto denaro per pagare le multe e farli rilasciare.

Con il tempo questi piccoli movimenti – per acqua, torture e sparizioni forzate, vita universitaria occupata dalle forze armate, abusi contro stampa e società civile, crisi economica e inflazione – formeranno la base sociale per la caduta del regime. Ancora quel momento non è giunto: la rabbia si sta allargando a settori sempre più ampi della società ma il sistema è ancora troppo forte, a causa del sostegno regionale e occidentale. Ma quando le crepe che stanno comparendo si allargheranno, il popolo farà ad al-Sisi quello che ha fatto a Mubarak.

In un recente articolo su al-Jazeera definisci la bassa affluenza alle urne alle parlamentari del 2015 (28%) come “protesta silenziosa”. Ma c’è chi ancora riconosce consenso ad al-Sisi?

Al-Sisi gode ancora di consenso da una parte della popolazione, ma è una fetta che si riduce ogni giorno di più. Nel 2013 il golpe fu sostenuto da milioni di egiziani, ma oggi nelle piazze a favore del governo scende qualche migliaio di persone. La ragione è di nuovo la chiusura del regime: Mubarak aveva un partito politico alle spalle, al-Sisi no e questo lo priva di un’apertura mentale minima verso le richieste e le esigenze della base. La sua legittimità si fonda solo sull’esercito e il suo modo di governare si basa sulla mera ricerca di obbedienza, come se governasse una caserma. La lealtà dei parlamentari che lo appoggiano deriva da legami personali e dal monitoraggio della loro fedeltà da parte dei militari. Il punto è che, se prima era la base a togliergli consenso, ora lo sta perdendo anche dentro l’establishment politico per l’incapacità a gestire il paese.

Il direttore del giornale governativo al-Ahram qualche mese fa avvertì: il caso di Giulio Regeni è potenzialmente distruttivo come fu quello di Khaled Said. Pensi che, se non all’interno, la morte di Giulio possa attirare solidarietà dall’esterno?

Quell’editoriale è esempio di quanto dicevo: anche l’establishment governativo mostra dissenso. La morte di Giulio ha acceso l’attenzione internazionale. Quando penso a lui, penso a Khaled: entrambi morti perché cercavano la verità (Giulio sui sindacati, Khaled aveva un video sul traffico di droga in mano a dei poliziotti) ed entrambi assomigliavano a tantissimi ragazzi che nel mondo lottano contro una qualche forma di ingiustizia. Come nel 2010 eravamo tutti Khaled Said, ora siamo tutti Giulio Regeni.