Con l’accordo l’Iran legittima la guerra sciita all’Isis
Stato Islamico La cooperazione indiretta tra Washington e Teheran potrebbe trasformare le sorti dei conflitti in Siria e in Iraq, dove a combattere il califfo sono le forze sciite. A scapito delle interferenze dell'Arabia saudita
Stato Islamico La cooperazione indiretta tra Washington e Teheran potrebbe trasformare le sorti dei conflitti in Siria e in Iraq, dove a combattere il califfo sono le forze sciite. A scapito delle interferenze dell'Arabia saudita
La portata politica e militare del compromesso firmato a Vienna tra Iran e 5+1 è un terremoto. Ma anche una sorta di legittimazione: quella della guerra sciita al califfato di al-Baghdadi.
Da mesi ormai a combattere gli islamisti del califfo sono le milizie sciite: quelle irachene delle Hashed al-Shaabi (direttamente gestite da Teheran), quelle di Hezbollah che difendono il confine tra Siria e Libano, le truppe governative del presidente siriano Bashar al-Assad, apertamente sostenute dall’iran. All’asse sciita si deve buona parte della reconquista dei territori occupati in un anno di Stato Islamico.
Con l’Iran che rientra nella comunità internazionale dalla porta principale, la collaborazione indiretta e mai ammessa tra Washington e Teheran potrebbe modificare le sorti del conflitto regionale e della ridefinizione dei confini nazionali. A scapito dei regimi reazionari del Golfo, Arabia saudita in testa, e della Turchia del novello sultano Erdogan.
Le reazioni di Damasco e Baghdad alla firma dell’accordo viennese guardano in questa direzione. Il presidente siriano Assad ha parlato di «enorme vittoria» per il governo iraniano, nella lettera di congratulazioni inviata all’Ayatollah Khamenei. Musica simile l’ha suonata il premier iracheno al-Abadi che definisce il compromesso «un catalizzatore della stabilità regionale», in grado di risparmiare al Medio Oriente il flagello delle guerre.
Lo si vede ogni giorno nel campo siriano e iracheno. Lunedì Baghdad ha lanciato una nuova operazione per la provincia sunnita di Anbar (strategica perché alle porte della capitale e perché confinante con Siria, Arabia saudita e Libano). In prima fila sono schierate le milizie sciite che ripresero Tikrit: in due giorni hanno circondato Fallujah, tagliato le vie di rifornimento dell’Isis, aperto un corridoio per la fuga dei civili e attaccato il capoluogo Ramadi da tre direzioni.
In Siria, se lo Stato Islamico avanza a nord est nella città kurda di Hasakah, al confine con il Libano truppe governative e Hezbollah hanno occupato un altro quartiere nella città di Zabadani, consolidando il controllo sulla regione di frontiera di Qalamoun. E, visto il radicamento della presenza iraniana in Siria, la fine delle sanzioni potrebbe garantire ad Assad fondi freschi da usare nella guerra civile.
In Yemen (la guerra invisibile, dimenticata dai media), seppure abbiano perso ieri il controllo del porto di Aden, capitale provvisoria del governo ufficiale, il movimento sciita Houthi mantiene le posizioni dopo 100 giorni di attacco saudita. Riyadh non riesce a piegarne la resistenza e, segno di nervosismo, viola le difficili tregue siglate dall’Onu: la scorsa settimana il cessate il fuoco umanitario non è durato che poche ore prima che le bombe tornassero a cadere.
Da qui deriva l’estrema preoccupazione di Israele e Arabia saudita che con l’Iran è in guerra aperta in Yemen e in conflitto silenzioso tra Siria e Iraq. Il tappeto rosso steso ai piedi degli Ayatollah segna – attraverso il certo avvio di rapporti economici e militari con l’Occidente (agognati dalle compagnie private) – la fine del monopolio saudita e israeliano della “sicurezza” regionale statunitense ed europea.
Oggi sul campo mediorientale c’è un nuovo super potere, energetico, politico, economico, che nonostante anni di sanzioni ha saputo mantenere fermo il pugno sulla regione. E, sebbene Teheran resterà stretto nel limbo del nemico-amico Usa, dell’alleato-rivale occidentale, la cooperazione militare tra la coalizione anti-Isis e l’Iran non potrà che godere di nuova linfa.
Accadrà con buona probabilità a Baghdad, dove Casa Bianca e Repubblica Islamica sostengono entrambe il governo del premier al-Abadi. E, indirettamente, potrebbe accadere anche a Damasco: se i raid Usa in Siria contro le postazioni Isis colpiscono quasi sempre a nord, a sostegno delle Ypg kurde piuttosto che del governo Assad, è possibile che l’accordo sul nucleare iraniano porti a conseguenze politiche più che militari. Ovvero, nessuna collaborazione diretta sul campo bellico, ma una riapertura di un negoziato concreto e serio tra Damasco e opposizioni moderate, ormai quasi scomparse sia sul terreno che nelle stanze della diplomazia mondiale.
E se è vero che per Teheran mantenere in piedi Assad ha un costo consistente in termini finanziari e militari, il tornaconto politico vale la candela: perdere Damasco farebbe crollare il cuore dell’asse sciita, a tutto vantaggio dei sunniti del Golfo.
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