A ogni osservatore ragionevole, le ragioni perché Letta, compiuta la riforma elettorale, mandi a casa il governo, dovrebbero apparire evidenti. Non ritorno sulle ragioni morali e di etica pubblica, già altre volte evocate. Questo ceto di governo ha letteralmente disseccato le basi morali della politica e fa sentir vano il solo parlarne. Rammento almeno che l’attuale esecutivo, avendo capovolto il mandato ricevuto e tradito la fiducia di tutti gli elettori – ottenuta con un sistema elettorale estorsivo del consenso popolare – si fonda su un atto di fellonia che non ha precedenti nella nostra storia. Poggia, per così dire, su una scelta fondativa di immoralità pubblica. Tralascio anche le gravissime questioni di ordine economico, che certo non fanno un passo in avanti con la recente “legge di immobilità”.
Mi limito qui alle ragioni strettamente politiche. Ammesso che queste ultime, legate come sono alla trama della legalità, possano essere separate dall’etica pubblica. Dunque, un nuovo totem è stato innalzato in piazza e dato in pasto ai media come un animale sacrificale: la stabilità. Giornali e telegiornali hanno trovato un nuovo motivo su cui suonare le loro quotidiane fanfare. Pare che il fine supremo dell’azione del governo sia diventato lo stare uniti dei suoi ministri, indipendentemente da quel che si fa. Come se sostare in stazione guardando i treni che passano ci facesse arrivare da qualche parte. Mentre la stabilità ci viene imposta come uno stato di necessità, quasi che il governo delle larghe intese, con la sua sola presenza, dovesse salvarci da una catastrofe imminente.
Certo, mostrare un minimo di stabilità governativa aiuta ad abbassare lo spread e porta qualche vantaggio alle finanze pubbliche. Ma basta questo e i recentissimi provvedimenti per uscire dalla situazione in cui ci troviamo? E a questo rattrappito orizzonte si è rassegnata la politica, stare accucciata, rattoppare di compromesso in compromesso una maggioranza rissosa e innaturale per tranquillizzare i mercati finanziari? I quali, come sappiamo, sono già così tranquilli che acquistano ormai a mani basse i capisaldi della nostra industria. Qui l’opera del governo somiglia a quella di chi raccoglie per strada i calcinacci di un edificio in cui è già crollato il primo piano.

Ma quanto ci costa la stabilità su altri versanti? Esiste, ad esempio, un vastissimo ambito della vita nazionale su cui non arriva, se non episodicamente, il nostro sguardo. E’ il vasto mondo delle amministrazioni e della politica locale. Qui, negli ultimi mesi, in molte aree, si è bloccata la dialettica politica. Nella periferia del paese l’emarginazione o la scomparsa di ogni opposizione fornisce un alimento formidabile alla cultura dilagante della collusione, dentro e fuori i partiti. Se Pd e Pdl sono alleati a Roma, nei comuni, nelle Regioni, nelle provincie , nelle varie partecipate, il controllo di legalità si affievolisce, talora diventa esilissimo. Le persone intransigenti, che pure non mancano, sono sospinti ai margini della vita politica e amministrativa dai tantissimi figuri che praticano la politica come affare. Esemplare appare il caso della Calabria. Qui, nell’ottobre del 2012, è stato sciolto per collusione con la mafia nientemeno che il comune di Reggio Calabria. Non proprio un villaggio di montagna, ma una città di 180 mila abitanti. L’ex sindaco e ora presidente della Regione, Giuseppe Scopelliti ha ricevuto l’anno scorso un avviso di garanzia e naturalmente, secondo il costume inaugurato e reso normalità dal berlusconismo, sta splendidamente al suo posto. Ma da quando si è formato il governo Letta una pax augustea è scesa sulla vita politica della regione. Come fa il partito che era il maggiore oppositore, il Pd, a fare lotta politica, in Calabria e altrove, contro un alleato di governo? Appare evidente l’innesco di una tendenza pericolosa, in un paese segnato da tre forme storiche di criminalità. Un governo delle larghe intese, che durasse degli anni, distruggerebbe la legalità repubblicana e il tessuto civile della nazione.
Ma i guasti delle larghe intese si vedono benissimo anche dal Centro dell’Italia. La più evidente specificità della crisi italiana non è solo data dalla inettitudine del ceto politico a elaborare una strategia efficace e credibile. E’ anche la profonda sfiducia dei cittadini nella loro capacità di governo e nella loro onestà e trasparenza. Ora, come si risponde a tale elementare e universale esigenza, fonte di ogni democrazia, se non si attribuiscono le responsabilità storiche della crisi in cui versa il paese e della sua fallimentare gestione? Con il governo Letta, che alcuni strateghi del Pd e qualche supremo ispiratore (non mi riferisco alla Spirito Santo), vorrebbero tenere in vita un altro anno e mezzo, scompare alla vista degli italiani ogni responsabilità storica di quanto accaduto. Eppure, gli italiani versano in una delle condizioni di più grave disagio e immiserimento della storia repubblicana. Assistono sgomenti alla decomposizione dei fondamenti della loro economia e del loro benessere. E ad essi non solo non viene indicata una via d’uscita credibile, ma neppure chiarita la ragione storica, la responsabilità politica di chi li ha condotti a questo punto. Certo, anche il centro-sinistra ha fatto la sua piccola parte, ma è evidente che l’Italia sfasciata di questi anni è il prodotto storico, la creatura fallimentare del centro-destra, interprete provinciale e cialtronesco delle ricette neoliberiste che hanno portato alla crisi mondiale e ancora la alimentano.
Ma se il Pd rimane così lungamente abbracciato al suo avversario, se non riesce, com’è evidente, se non a rattoppare ricette compromissorie e senza risultati, come si presenterà agli elettori nella prossima campagna elettorale? Chi sarà l’avversario da battere e dunque da indicare come il responsabile del presente disastro? Davvero si può pensare che in un anno e mezzo la condizione del paese cambi al punto da rendere meritevole di consenso, agli occhi degli elettori, l’operato di questo governo? Tale linea di marcia ha poi varie altre conseguenze. E’ evidente che se nello scenario politico italiano non emerge una forza politica di sinistra riformatrice, capace di una critica radicale al centro-destra e alle sue ricette (una forza che corrisponde alla nostra storia, al comune sentire e alle aspettative di una vastissima, forse maggioritaria parte di italiani ) allora l’Italia diventerà ingovernabile, qualunque sarà il sistema elettorale. E’ evidente che l’astensionismo è destinato a diventare il primo partito e il movimento 5stelle un centro stabile del sistema politico. La spinta di alcuni settori di Sel a gravitare nell’orbita satellitare del Pd è foriera di sicuri disastri. Finirà col rendere irrilevante questa formazione nello scenario nazionale, rafforzando nel Pd l’anima centrista e neoliberista e aprendo ampi spazi ai 5stelle .
Ma ci sono altre conseguenze di medio periodo, che dovrebbero allarmare tutti. La sconfessione, da parte di Grillo, dei parlamentari che al Senato avevano provato ad abolire il reato di clandestinità, è un segnale non episodico. Disputare se Grillo è fascista o meno serve a poco. Una delle caratteristiche costitutive dei movimenti populisti è la loro volubilità e mancanza di programma. I loro capi adattano le politiche alle circostanze e alle correnti dominanti che attraversano l’opinione pubblica, peraltro da essi stessi influenzata e manipolata. Il Movimento 5stelle nel nostro prossimo futuro, può diventare qualsiasi cosa. Potrebbe ereditare in nuove forme il populismo berlusconiano. Lo si comprende guardando anche al crescente successo delle destre in Europa e soprattutto ai recenti sondaggi che in Francia danno il partito di Marie Le Pen al primo posto. L’attuale situazione francese mostra una evoluzione ormai da manuale. Il presidente Hollande, che aveva ricevuto il consenso della maggioranza dei suoi connazionali, non è riuscito a incanalare il crescente disagio popolare in una prospettiva credibile di soluzione a vantaggio della grande massa dei lavoratori e del ceto medio. Il solito gatto che si morde la coda. Perché se le forze di sinistra, giunte al potere, non danno corso alle politiche di sostegno popolare promesse , ma finiscono con l’accettare le compatibilità della finanza, perdono poi l’appoggio popolare di cui avrebbero bisogno per forzare quelle compatibilità e far vincere le proprie soluzioni. Il grande rischio è che, col passare dei mesi, diventino allora sempre più facili e più credibili le spiegazioni xenofobe e nazionaliste della crisi. Gli “stranieri che rubano il lavoro” diventerà un motivo dominante della propaganda di destra, alimentata inesorabilmente dalla decomposizione dei tanti stati del Nord Africa e dalle nuove correnti d’immigrazione. E’ prevedibile che, continuando in Europa la politica economica attuale, il rancore antitedesco, che cova storicamente nell’anima della Francia profonda, dia alla destra un consenso ancora più vasto. E se dovesse vincere Le Pen è evidente che l’avventura dell’ Unione europea è finita.

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