La riconquista del territorio montano da parte del bosco è un fenomeno piuttosto recente, e come abbiamo visto è correlato al declino delle attività agro-silvo-pastorali. Si tratta di una tendenza coincidente grosso modo con l’industrializzazione del secondo dopo guerra. Nemmeno cento anni fa difatti il mondo di mezzo si presentava in maniera molto diversa, già a un primo impatto visivo.

Antonella Mott, del Museo degli Usi e Costumi della gente trentina, ci aiuta ad approfondire la questione: «Il bosco non arrivava certo a lambire gli abitati, per lo meno non come lo intendiamo oggi. Sopra i paesi c’erano quote coltivate a cereali, patate, prato, il bosco era ridotto a lingue di vegetazione. Ma bisogna capire che tutta l’economia del paese era completamente diversa».

Al giorno d’oggi siamo abituati infatti a vivere in famiglia dividendo quotidianamente lo stesso tetto, ma già nel secolo scorso la vita contadina nelle montagne trentine – e non solo – era molto diversa: «Il concetto di residenzialità che abbiamo oggi allora non esisteva, i gruppi familiari erano molto meno stanziali – spiega Mott – In primavera gli uomini, o talvolta intere famiglie, si spostavano a quote di mezza montagna per rimanervi fino alla prima neve. Spesso le donne rimanevano a fondovalle con i bambini e li raggiungevano in determinati periodi ad aiutare, o nei fine settimana. In altri momenti tutta la famiglia era riunita. In queste vallate c’erano proprietà chiamate maggenghi, dove si falciava l’erba, si faceva il fieno. Nei cento giorni dell’estate il bestiame saliva al pascolo in malga, ma la famiglia rimaneva a questa quota intermedia. Ogni famiglia mandava magari le proprie due o tre vacche nei pascoli d’alta quota, gestiti dalle comunità, dai consorzi, ma la vita quotidiana proseguiva appunto nei maggenghi». Si può facilmente immaginare che dato il lungo periodo di soggiorno in mezza montagna, insieme ai terreni coltivati a prato ci fossero altre colture: «Orti, alberi da frutto, campi di patate, con tutte le conseguenze sulla determinazione del paesaggio che potete immaginare».

La montagna era animata da un gran via vai di gente, i sentieri che oggi percorriamo per diletto erano delle vere vie di comunicazione tra il fondovalle e le attività di mezza montagna. La loro manutenzione era costante e favorita dal continuo passaggio. In autunno si faceva la legna e anche in questo caso il paesaggio era fortemente influenzato dall’attività umana che a rotazione insisteva su aree diverse: «Anche per il legname venivano assegnati dei lotti di bosco come avviene oggi, ma la proprietà da noi, a differenza che nel mondo germanico, non era privata.

Ad ogni modo ogni anno le parti di bosco assegnate variavano: serviva legname da costruzione e legna da ardere, dal bosco di latifoglie si ricavavano le lettiere degli animali. Si raccoglievano il fogliame, gli aghi». In questo modo il bosco si manteneva “pulito” e vivo, sotto controllo nella sua tendenza ad estendersi senza selezione. La compenetrazione tra attività umane e natura era costante: «La presenza di colture che dovevano garantire l’auto sostentamento della famiglia, la concimazione dei prati ad opera degli animali, la raccolta di legname: erano tutte attività che facilitavano la creazione di quella varietà di specie vegetali e animali tanto importante. Lo stesso concetto di natura naturans era quasi assente nei nostri territori». Oggi la wilderness è considerata un valore assoluto, un mondo mitico a cui tendere antitetico alla civiltà: grazie alla riscoperta della nostra storia possiamo invece comprendere come la compresenza di uomo e natura sia capace, nel giusto equilibrio, di generare effetti positivi non solo per l’uomo stesso, ma anche per il nostro ambiente.