Il deserto ha il colore della cenere e la terra scotta sotto le scarpe. Dove fino alle dieci e un quarto della mattinata di ieri c’erano tre capannoni zeppi di fuochi d’artificio, adesso non c’è più nulla. I cartelli sulla strada annunciano trionfanti che ci troviamo nel territorio di Città Sant’Angelo, «uno dei borghi più belli d’Italia», ma l’aria è piena di polvere e quello che si suppone essere un ridente paese poggiato in cima a una collina è qualcosa di appena intuibile in mezzo alle colonne di fumo. La Pirotecnica Abruzzese di Mauro Di Giacomo è quasi in aperta campagna, distante dal paese: 25 mila metri quadrati di stabilimenti in una frazione chiamata Villa Cipressi.

Le esplosioni sono state tre, il primo contingente di vigili del fuoco è arrivato dopo la prima e in tre si sono visti scoppiare in faccia un capannone.

La temperatura è già alta e più ci si avvicina al luogo dell’esplosione più i gradi salgono sulla colonnina di mercurio del termometro. Per la strada pietre e detriti, volati via dai capannoni, sparate anche a un chilometro di distanza. «Lo vedi quello lì – un signore indica un pezzo di ferro piantato nel terreno come un giavellotto – viene da lì», e con il dito punta il luogo del disastro, lontano non poco, in linea d’aria. Le finestre delle case sono in frantumi, il cimitero – poche centinaia di metri distante – è una distesa di macerie e polvere. Uomini in divisa si aggirano lungo le stradine quasi sterrate per spegnere i tizzoni ardenti. Elicotteri e aerei volano a bassa quota e gettano acqua sugli ultimi fuochi più grandi.

«Io ero davanti alla finestra – racconta un ragazzo che vive dall’altra parte della collina rispetto all’ingresso dello stabilimento –, tremava tutto, pensavo fosse un terremoto. Poi ho visto un fungo tipo quello delle bombe atomiche. Alla fine sono cominciate a piovere pietre». Una ragazza ci fa vedere dal suo telefono le foto degli interni di casa sua: il salotto è ridotto a un cumulo di pezzi d’arredamento, nel soffitto c’è un buco enorme: lì c’era il lampadario, ora si vede il cielo.

Le tre esplosioni sono un tatuaggio sulla terra, la campagna bruciata indica con esattezza il luogo in cui erano depositati i fuochi d’artificio. Dietro ci sono delle case, quella più vicina ai capannoni è completamente sventrata, un buco su una facciata permette di vedere gli interni, spazzati via in tutte le direzioni. Oltre i cancelli c’è un gazebo: qui parenti, amici e abitanti del luogo restano seduti. C’è chi piange, chi parla o urla al telefono, chi, in piedi sul ciglio, osserva quel che resta. Intorno a loro, poliziotti e carabinieri distendono il nastro bicolore: disposizione del magistrato di turno, l’area è sotto sequestro, l’inchiesta per incendio colposo, disastro colposo e omicidio colposo «forse plurimo» è appena cominciata.

La prima vittima accertata ha 22 anni, è il figlio del proprietario: Alessio Di Giacomo il suo nome. Altre tre persone sono disperse e se si prova a domandare qualche informazione, ogni risposta è preceduta da un lungo sospiro, poi le parole spariscono e ricompaiono, gelide come solo certi bollettini da burocrazia ospedaliera: «Per quanto ne sappiamo, sono là sotto da qualche parte». Là sotto sarebbe dove, prima dello scoppio, c’era la collina. Nel pomeriggio spunta fuori una signora di 92 anni, miracolosamente illesa. Era in un’ala del palazzo vicino ai capannoni che ha resistito alla forza d’urto. Per gli altri, le ricerche vengono sospese intorno alle cinque e mezzo: «Bisogna prima bonificare l’area», spiega un poliziotto. Dicono che sotto terra ci sia ancora qualche quintale di esplosivo. Serviranno due giorni, forse tre, qualcuno si spinge addirittura più in là: le operazioni sono sospese per i prossimi quattro giorni. All’appello mancano tre Di Giacomo: il patriarca Mauro (45 anni), Roberto (39) e Federico (50).

Dall’alto di un’altra collina, il paesaggio è una ricognizione del dolore: la fabbrica di magia che colorava le notti infinite dell’estate abruzzese è distrutta, quello che non è avvolto nel fumo è sepolto sotto tonnellate di terra bruciata.