In occasione del suo compleanno che cadrà il 30 marzo, arriva in libreria, per Rubbettino, la guida del Museo di Casal de’ Pazzi: Quando a Roma vivevano gli elefanti (pp. 223, euro 18), a cura di Patrizia Gioia.
Il sito, noto per aver restituito trenta zanne di Palaeoloxodon antiquus, è gestito dalla Sovrintendenza capitolina, nel cui delicato risiko rappresenta una tenace testa di ponte. La sua vocazione risiede infatti nella posizione, liminale e orgogliosa. Dei venti musei comunali di Roma, quello pleistocenico di Casal de’ Pazzi è il più periferico non solo geograficamente – si trova a Rebibbia, in via Egidio Galbani – quanto idealmente. Per lo meno se insistiamo nell’identificare il centro con la lupa bronzea del Campidoglio e l’ubiqua capoccia del Mario Silla di Guzzanti, incubo del sindaco Rutelli: gli edili se la ritrovano infastiditi tra i piedi e, puntualmente, i vincoli archeologici bloccano i cantieri della metro.

Eppure, qualora un essere vivente osasse mai avocare il ruolo di tutore dell’Urbe, l’unico con le carte in regola sembrerebbe piuttosto il placido elefante. È lui il mattatore, la smagliatura nella trama eterna dello storytelling di Roma. Almeno dal 1932, quando lungo via dei Fori Imperiali fecero capolino un cranio e tanto avorio, frapponendosi tra gli occhi increduli del piccone del regime e la prospettiva del Colosseo, inseguita a costo di sbancare il colle della Velia.

CON IL PASSO LENTO e resiliente di un pachiderma, il museo di Casal de’ Pazzi, inaugurato nel 2015, si è innalzato a polo culturale di un quartiere che, nel migliore dei casi, sotto elezioni è preso a esempio paternalista di una marginalizzazione da valorizzare. Ha coinvolto le associazioni e le istituzioni pubbliche, a partire dall’Istituto Comprensivo Palombini e dalle biblioteche comunali Fabrizi e Giovenale. Ha attratto artisti: Zero Calcare, che del «mammut» ha fatto un totem di alterità; Blu, accorso per realizzare il murale Spirale delle storia della Terra; Hitnes. Le maioliche ai lati dell’ingresso, che ricostruiscono l’ambiente pleistocenico, sono state realizzate da una cooperativa sociale con la collaborazione di detenuti del carcere di Rebibbia.
Il museo è un labirinto borgesiano che immerge le sue radici nell’alveo fossilizzato di un affluente dell’Aniene antico di 200mila anni. Allora cacciatori-raccoglitori, sullo sfondo di possenti vulcani, calpestavano limo e argilla, riposavano all’ombra degli alberi di Giuda, si accampavano tra iene, ippopotami e rinoceronti. Rispetto a loro, il Romolo del film Il primo re pare uno stanco epigono retrofuturista. Al visitatore (l’ingresso è gratuito su prenotazione; tutte le mattine tranne il fine settimana) sembrerà di passeggiare su uno dei cimiteri indiani evocati da Stephen King. Perché il museo poggia sulle scorie della metamorfosi coatta che ha antropizzato la città, avvolgendola in un loop infinito di peccati originali, dentro e fuori il Sacro Gra.

LUNGO QUESTO «LIMES» i costruttori usano ergersi a demiurghi, finché la storia non restituisce ai cittadini principi di realtà. Come successe in via Galbani nel 1981: durante la messa in opera di una galleria di servizi per un nuovo lotto di case, una ruspa si incagliò su una zanna lunga tre metri. La Sovrintendenza ottenne la concessione per scavare su un’area di 1200 metri quadrati, identificando oltre duemila reperti faunistici, tra cui trenta zanne di antichi elefanti, un migliaio di strumenti litici e il frammento di un parietale umano attribuito a una forma arcaica di Homo. Riemerse così ciò che altrimenti sarebbe andato perduto per sempre: il racconto di una Roma pleistocenica, di cui ora si fa carico anche la guida.
La Campagna romana è piena di giacimenti contenenti resti fossili di elefanti, datati tra 350 e 125 mila anni fa, quando ebbero luogo le ultime potenti eruzioni, responsabili della cancellazione di qualsiasi testimonianza precedente. Rinvenimenti di eccezionale importanza si sono verificati in periferia: a Ovest, intorno alla via Aurelia, e a Est, lungo la bassa valle dell’Aniene.

Acquerello di Maria Barosso sul ritrovamento della zanna al Colosseo

A OVEST, UN AMPIO TERRITORIO è stato strappato alla speculazione edilizia dal Pio Istituto S. Spirito, un ente assistenziale che nel 1896 destinò a pascolo terreni ceduti al Comune nel 1978 e in seguito inseriti nella tenuta pubblica di Castel di Guido. Qui sopravvivono i giacimenti di Torre in Pietra, Malagrotta e, soprattutto, La Polledrara di Cecanibbio: il maggior sito d’Europa per quantità di resti di elefanti, scoperto nel 1984.
La zona Est di Roma, invece, già dalla fine dell’Ottocento subì una violenta urbanizzazione, anticipata da un’intensa attività di cava di materiali vulcanici e sabbie fluviali. Nel corso degli scavi, la guardia pontificia Luigi Ceselli trovò frammenti di vari elefanti a Ponte Mammolo, nel 1866; così come il geologo Romolo Meli nel 1882, presso piazza Addis Abeba, e come Alberto Carlo Blanc a Ponte Salario, nel 1930, e a Ponte Nomentano, nel 1935, insieme a due crani neandertaliani ottimamente conservati.

DI TUTTI QUESTI VARCHI temporali nulla resta, a parte Casal de’ Pazzi. Resiste tuttavia la speranza che altrove, in attesa del ritorno della capoccia di Mario Silla, altre ruspe possano essere bloccate da zanne di Palaeoloxodon antiquus. Oppure dalla forza dell’acqua, come successo a largo Preneste, dove uno speculatore pensò di poter pompare un fiume sotterraneo nelle fogne, convinto di piegare alla sua avidità da lupo dantesco l’innocente possanza di un’elefantiaca natura. Avrebbe voluto un centro commerciale. Ora c’è un lago.

 

SCHEDA

Quando uomo e bertuccia condividevano l’habitat a Notarchirico, in Basilicata

Nel Pleistocene medio, in Basilicata, due primati condividevano gli stessi spazi: l’uomo e la bertuccia. Lo rivela uno studio pubblicato sul Journal of Human Evolution.

Coordinata dall’archeologa Marie-Hélène Moncel, del Museo nazionale di Storia Naturale di Parigi, la ricerca ha visto la collaborazione di due paleontologi dell’Università La Sapienza: Beniamino Mecozzi e Raffaele Sardella, direttore del Museo di Scienze della Terra dell’ateneo romano.
«Il sito di Notarchirico, presso Venosa, è datato tra 695 e 670mila anni fa – spiega Sardella – Gli scavi, cominciati negli anni ’50, nel 1979 hanno restituito una tibia di Homo heidelbergensis. I lavori in corso, avviati nel 2016, hanno riportato alla luce numerosi bifacciali in pietra, associati a strati con ossa di ippopotami, rinoceronti, uri, Dama clactoniana – l’antenato del daino – e Palaeoloxodon antiquus».

A sorprendere la comunità scientifica, tuttavia, è bastato un frammento di ulna: la parte più vicina all’articolazione del gomito di Macaca sylvanus. La bertuccia, diffusa soprattutto in Nordafrica, se ne sarebbe andata dall’Italia 100mila anni fa, cedendo all’ultima glaciazione.

«Trovarla 600mila anni prima insieme agli uomini è davvero raro – sottolinea Sardella – Gli altri animali tendevano, già all’epoca, a scappare. Tra i carnivori, infatti, abbiamo individuato solo qualche lupo. Eppure, nella zona, sappiamo che esistevano anche leoni e tigri dai denti a sciabola. Abbiamo invece evidenziato diverse tracce di erbivori perché l’uomo, nutrendosene, finiva per trascinarsi dietro le carcasse. Il sito rappresenta quindi la fotografia non di una situazione naturale, ma di un ecosistema filtrato da Homo».

Le bertucce si collocano tra due estremi. Non sono prede, ma sanno essere fastidiose: hanno canini appuntiti e sono aggressive. A Notarchirico però interagivano, in una relazione di reciproco controllo, con un genere che avrebbe iniziato presto a ritenersi padrone della natura. Uomo e bertuccia, oggi, sono gli unici due primati europei in libertà. Nel continente, il primo vive ovunque; il secondo soltanto a Gibilterra, dove è stato reintrodotto.