La composizione del governo Draghi, e prima ancora la natura della manovra che aveva portato alla fine del Conte bis, già lasciano trasparire molto di ciò che ci attende. Tralasciamo pure gli aspetti «vintage» e maschilisti della nuova compagine, così come le preoccupazioni legate alla gestione della pandemia da parte di un governo a forte caratterizzazione leghista; guardiamo oltre la cortina di nebbia mediatica avvolta attorno al nuovo uomo della provvidenza.

A colpire sono gli aspetti di restaurazione notabilare, la trazione smaccatamente nordista e pro-impresa dell’esecutivo. Ma al servizio di quale idea di Paese, di quale modalità del suo inserimento nel contesto internazionale, di quali interessi sociali?

Un indizio lo ha fornito di recente Emiliano Brancaccio, presentandoci, testi alla mano, un Draghi né keynesiano né liberista, ma schumpeteriano. Secondo questa lettura, la funzione del nuovo governo sarebbe quella di assecondare la distruzione creatrice e la ristrutturazione del capitalismo italiano, entrambe necessarie a rinnovare i caratteri dell’egemonia borghese nel travaglio di una crisi ormai più che decennale.

Lo impone il nuovo contesto e lo impongono le nuove dinamiche del capitalismo attuale.

La globalizzazione, al di là dei sogni irenici tramontati già col volgere del secolo, ha imposto nuove divisioni internazionali del lavoro, nuove e più marcate polarizzazioni sociali e territoriali, nuove concentrazioni di potere e di accumulazione capitalistica.

L’Unione europea, per come si è concretizzata a partire dagli anni Novanta del Novecento, rappresenta l’aspetto continentale di questo processo generale. L’accelerazione in questo senso, dovuta alla crisi economica e pandemica, non lascia spazio per la stasi; la coperta si è fatta d’improvviso troppo corta.

La caratteristica italiana risiede in questo: alla sinistra politica e sindacale manca la forza (e forse la volontà) di invertire il processo, alla destra politica ed economica manca la forza per portarlo finalmente a compimento.

Il governo giallorosso rappresentava un governo di tregua sociale che le nostre classi dominanti non erano più in grado di accettare, e d’altro canto qualsiasi soluzione parlamentare della crisi non avrebbe potuto garantire quella svolta da loro a lungo attesa. Insomma, a fronte dei tentennamenti della politica le classi dominanti hanno imposto una soluzione corporativa della crisi, nel senso della consegna diretta dei pubblici poteri all’industria e alla finanza.

Il potere dei tecnici, allora, dovrebbe servire ad accelerare l’inserimento del Paese nella nuova competizione continentale e globale per i capitali, tramite il taglio deciso dei «rami secchi» del nostro apparato produttivo (cioè il sud e i rami decotti), l’adeguamento alla necessità del momento del sistema educativo (maggiore aziendalizzazione di scuola e università), e l’affidamento semmai a settori come quello turistico il compito di fornire un po’ di respiro (saltuario ed intermittente) al lavoro a basso valore aggiunto.

All’interno della soluzione corporativa non è detto, e in questo risiede il senso della grande coalizione al servizio del nuovo esecutivo, che alcune istanze del grillismo e del sindacalismo confederale non possano trovare agibilità.

Se il disegno si compie, qualche beneficio in via subordinata ne potrà trarre la manodopera occupata nei settori produttivi usciti vincenti dalla competizione schumpeteriana (si veda il nuovo contratto dei metalmeccanici); mentre per gli sconfitti una qualche forma di compensazione dovrà pur essere trovata (possibilità di mantenere attivo il reddito di cittadinanza, magari subordinandolo a forme coattive di accettazione di impieghi saltuari e malpagati).

Se questo è quanto ci attende, desta più di qualche perplessità la volontà espressa da gran parte di ciò che rimane della sinistra politica di posizionarsi all’interno del quadro dato. Anche perché, ai bordi del tavolo imbandito dal nuovo governo rimane scoperto uno spazio ampio di disagio e mobilitazione sociale e ideale.

Da questo punto di vista si presentano due rischi: nell’immediato, che sia la destra nazionalista a capitalizzare il dissenso; nel medio periodo, che una eventuale ristrutturazione del sistema politico italiano, una volta esaurito il compito dei tecnici, si compia galleggiando su un mare di apatia e diffidenza nei confronti di qualsiasi prospettiva di mutamento.

Quale credibilità dare, a posteriori, a un gruppo dirigente che magari ben oltre i propri meriti si era trovato a gestire un capitale politico suscitatore di speranze come la coalizione che ha retto il Conte bis, per poi sfarinarsi nel giro di poche ore di fronte all’atto di pirateria renziano?

Dover ricominciare sempre da capo è frustrante. Alcuni semi erano stati piantati al riparo dell’esperienza del Conte bis, occorrerebbe una classe dirigente all’altezza della sfida di farli germogliare.