Da «È un dittatore, ma ci serve» a «Ci serve perché è un dittatore» il passo è breve; e lo ha fatto. Il prossimo sarà: «Ci serve un dittatore». Ci stiamo lavorando. Ci lavorano, insieme alla Nato, tutti i partiti impegnati, dalla maggioranza e dall’opposizione, a sostenere Draghi, «l’insostituibile». Ci lavorano tutti i media. “Sorge il sole, canta il gallo e Mario Draghi monta a cavallo” è ormai il contenuto di fondo di quasi tutti gli articoli.

Che a «risolvere» i problemi dell’Italia venisse chiamato l’uomo che, per rimborsare le banche francesi e tedesche che avevano prestato troppo alla Grecia, si era reso (certo indirettamente) responsabile della disperazione – a volte anche della morte – di decine di migliaia di esseri umani, condannati a fame, freddo, mancanza di cure e di medicine, ha lasciato esterrefatti milioni di italiani che pensavano di aver finalmente capito come funziona il mondo della finanza; ma non i partiti che lo hanno chiamato in servizio esautorando se stessi e il Parlamento.

Il Po è quasi scomparso, i raccolti anche, la Marmolada si è sciolta, la temperatura ha già raggiunto i 40 °C; le morti sul lavoro si susseguono, l’inflazione galoppa, l’occupazione è sempre più precaria (ma si riprenderà con la produzione di armi: benservito chi sosteneva che dare armi all’Ucraina non avrebbe aperto la strada all’aumento della spesa bellica e della bellicosità della Nato); l’ingresso di nucleare e gas nella tassonomia delle fonti energetiche verdi detta i tempi della non-transizione: 10-15 anni almeno (sicurezza a parte) per avere una centrale nucleare in funzione ed energia a costi multipli di quelli delle rinnovabili; non meno di 5 per nuovi gasdotti o nuove metaniere (posto che qualche competitor non si appropri prima dei giacimenti con cui si pensa di sostituire il gas russo): tempi più che sufficienti a installare tutti gli impianti di rinnovabili necessari a soddisfare un fabbisogno nazionale che dovrà comunque essere ridotto.

Con il deus ex machina che va a umiliarsi (in difesa dei valori occidentali?) dal dittatore Erdogan non meno di quanto aveva fatto Berlusconi con Gheddafi. Ma una cosa è chiara: la crisi climatica e ambientale Draghi non sa che cosa sia, non se ne è mai occupato, la considera solo un fastidio. E i suoi accoliti pure.

Invece va messa al centro dell’attenzione, dell’elaborazione, a qualsiasi livello, di ogni programma, di ogni possibile alleanza, del nostro agire quotidiano. Il tempo sta scadendo. Tutto «il resto» – lavoro, reddito, casa, salute, istruzione, sicurezza, ma anche famiglia, amicizie, solidarietà, cultura, felicità – non «viene dopo», ma deve trovare il suo posto «dentro» a una reazione generale alla crisi climatica e ambientale. O non troverà ascolto.

Il clima e l’ambiente non sono «opportunità» per creare nuovo lavoro. Sono temi ineludibili entro cui è possibile e necessario attivare nuovi impieghi, possibilmente meno gravosi e di maggior soddisfazione di quelli attuali; e solo quanti bastano a una radicale conversione ecologica. Ma per ciascuno dei «nuovi lavori» creati dalla conversione ecologica ce ne sono almeno altrettanti da sopprimere perché fanno danno: sono produzioni nocive che producono cose nocive (cioè mali) che non hanno più ragione di esistere.

Ma chi decide che cosa è buono e che cosa no? Non possono essere che gli interessati, nelle forme e nelle sedi di confronto più varie, tutte da definire. Questa è la vera sfida. Ma va garantita a tutti, a chi può perdere il posto e a chi ne va a occupare uno nuovo, parità di condizioni: di reddito (garantito), ma anche di impegno, attraverso una redistribuzione dei carichi del lavoro «buono». Utopia? Sì. Finalmente! Perché i posti di lavoro, soprattutto quelli buoni – ospedali, sanità, scuola, rinnovabili, ecc. – si stanno già perdendo e si perderanno sempre di più, mentre quelli cattivi – basta pensare all’industria delle armi, degli yackt, o dell’automobile – si farà di tutto per tenerli in vita.

Non c’è da farsi illusioni sull’obiettivo del +1,5°C: non verrà raggiunto. I contributi alla riduzione delle emissioni globali dell’Italia (che ne produce 1%) o dell’Ue (10%), quand’anche ci fossero – e non ci sono – sarebbero irrisori. Né c’è da aspettarsi scelte migliori dagli altri player globali. Perciò vanno messi in campo subito programmi di adattamento alle condizioni sempre più ostiche in cui ci verremo a trovare e già ci troviamo.

Occorre mettere ogni territorio in grado di affrontare la crisi nella massima autosufficienza possibile: energetica, agro-alimentare, produttiva. Occorre de-globalizzare: non la circolazione dell’informazione, delle idee e delle persone, ma quella delle merci. Questa è la sfida su cui si devono confrontare i programmi: coinvolgendo lavoratori, lavoratrici e tutte le persone sulle cui gamba dovrà marciare la conversione ecologica. A dirlo ora siamo noi: «TINA» (There is No Alternative), non c’è alternativa.