Aprile è il mese del Documento di Economia e Finanza (Def), che va presentato alla Commissione entro il 10. Lo prevede il calendario del «Semestre europeo», il ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio che impegna i Paesi membri dal 2011. Per noi, dopo la «manovra del popolo», è il tempo della quaresima, per riportare i conti in ordine e tranquillizzare i mercati. Complici l’andamento dell’economia e l’impennata del debito pubblico.

Il quadro: crescita zero per l’anno in corso (per l’Ocse -0,2%), bassa inflazione, rendimenti dei titoli di stato troppo alti in rapporto a quelli dei principali partner europei, debito delle amministrazioni pubbliche che a giugno supererà i 2.400 miliardi di euro (72 miliardi di interessi, contro i 65 del 2017). E il mercato del lavoro che inizia a risentire della congiuntura, come ha certificato l’ultima stima dell’Istat sulla disoccupazione (10,7% a febbraio, meno lavoro stabile e ad essere penalizzati maggiormente gli over 35). Unica notizia positiva l’utile record della Banca d’Italia nel 2018, dovuto agli acquisti di bond nell’ambito del quantitative easing, che ha fruttato allo Stato un dividendo di 5,7 miliardi.

Con questi numeri, la previsione sul deficit della legge di bilancio è nient’altro che una fake news. Dal 2,04% si andrebbe, nella migliore delle ipotesi, al 2,6% e fino al 3,5% nel 2020, qualora non si sterilizzasse la clausola Iva del valore di 23 miliardi.

Intendiamoci: tutti gli stati del mondo «lavorano» con disavanzi di parte corrente. D’altro canto, se il settore pubblico presenta un disavanzo, quello privato dovrebbe presentare un attivo. Semplici regole di macroeconomia. Il problema è che l’Italia ha un debito troppo elevato, senza strumenti diretti per tenerlo al riparo da assalti speculativi. Può solo comprimere il proprio bilancio, scaricando sui cittadini tutto il costo dell’indebitamento. E’ il vero vulnus dell’attuale modello di costruzione europea: indipendenza assoluta della banca centrale, governi disarmati di fronte ai bisogni reali della società.

Il governo «sovranista», tuttavia, non sembra molto incline a disobbedire a queste regole: sono lontani i tempi delle felpe con la scritta «basta euro». Prova a barcamenarsi tra esigenze elettorali di breve periodo e rispetto dei vincoli che discendono dalla camicia di forza del Fiscal compact. Lo testimoniano le «garanzie» che sono state offerte a Bruxelles per avere il via libera alla legge di bilancio (clausole Iva e 2 miliardi di spese ministeriali congelate) e, adesso, anche i «rimedi» che il Def dovrebbe contemplare per salvare capre e cavoli, ovvero gli impegni assunti con i cittadini e le cambiali sottoscritte con la Commissione.

Il Documento, com’è noto, si compone di un «quadro tendenziale» e di un «quadro programmatico». Per il primo, si tratterà soltanto di certificare l’«errore» di previsione sulla crescita per l’anno in corso e per il triennio, riconoscendo quello che tutti gli osservatori postulavano da mesi. Stagnazione e non crescita all’1%, dunque un disavanzo al di sopra di quello negato dalla Commissione a dicembre. Più complicata, invece, la partita relativa al secondo, considerato che dovrà tener conto delle misure necessarie per contrastare la «tendenza» fotografata nel primo.

Si sta lavorando ad un «decreto crescita», da varare insieme al Def, per prendere tempo e tenere buoni i commissari europei. Almeno fino alle elezioni di maggio. Ma al momento è solo una scatola vuota, senza soldi (e senza idee), solo «incentivi», sgravi e riduzioni fiscali alle imprese. In pratica una mossa per dimostrare di non voler violare i dogmi del patto di bilancio europeo e scansare di qualche mese l’incombenza di una manovra correttiva, per quanto il ministro Tria dichiari che «non ce la chiede nessuno». E’ un quadro paradossale. Se oggi serve un decreto ad hoc per spingere la crescita, a cosa sarebbe servita la «manovra espansiva» a dicembre venduta come un rimedio all’andamento calante dell’economia? Allora i soldi c’erano, adesso si tratta di rastrellarli per tappare i buchi.