Non ci sono muri lungo il confine tra Cile e Perù e neanche tra Cile e Bolivia. Ci sono campi minati e deserto. Chilometri e chilometri di deserto che non è facile attraversare, soprattutto a un’altezza tra i 3500 e i 4000 metri. Lassù i movimenti sono rallentati, il respiro affannato. Il cuore sembra sul punto di esplodere, ancor più se è assediato dalla paura. Una situazione tutt’altro che astratta per i 30mila domenicani che, fino ad oggi, hanno attraversato il confine (di cui 15mila clandestinamente) per inseguire il sogno di una vita migliore.
Con la stessa determinazione Cristóbal Olivares (Santiago del Cile, 1988) ne ha intercettato le storie, riprendendo un precedente lavoro in cui le loro memorie erano affidate ai cellulari, e giustapponendo i ritratti di spalle o di tre quarti a vasti orizzonti monocromatici. Nasce così il progetto Il deserto (2017), finalista alla V edizione del concorso Mast Foundation For Photography Grant, esposto nella Photogallery del Mast di Bologna (fino al 1 maggio). «Opere che riguardano tecnologia, industria e lavoro, oppure non lavoro come nel caso dei migranti», come afferma il curatore Urs Stahel.
Intorno al fenomeno delle migrazioni, c’è sempre un business che parte dai trafficanti e investe la burocrazia. «Per il concorso ho deciso di continuare a indagare questo tema – spiega Olivares – concentrandomi sui sopravvissuti, in particolare sulla popolazione domenicana che cerca nuove opportunità in Cile, una società in crescita che offre tanti posti di lavoro. Persone che vengono imbrogliate e portate nel deserto. Molte hanno perso la vita. In Europa siete ormai abituati ai flussi migratori, ma per il Cile è una novità. Un fenomeno che si è sviluppato solo negli ultimi dieci anni. Ho deciso di ritrarre quelle persone senza mostrane il volto perché molti avevano paura. Erano ancora scioccati dal punto di vista fisico e psicologico». Nel suo paese, il fotografo documentarista è stato insignito per dodici volte con il National Press Photo Awards (FotoPrensa) e nel 2006 con il fratello Alejandro e la sua ragazza Aribel González ha fondato Buen Lugar Ediciones, la casa editrice indipendente specializzata in fotografia con cui ha pubblicato anche il libro A-MOR (2015) sul femminicidio e la violenza domestica in Cile, premiato come miglior libro fotografico dell’anno da POY Iberoamerica.

In casa circolava la macchina fotografica del nonno. Come nasce l’interesse per la fotografia?
Nasce dalla combinazione di più cose. Intanto sono sempre stato in strada, in giro per il mio quartiere, nella periferia di Los Andes. Non esattamente un quartiere povero, ma modesto. Stavo poco in casa e non ho mai giocato con i videogames, piuttosto andavo nel cortile sul retro e costruivo una casa sull’albero. Per oltre dieci anni ho fatto anche skateboard. Questo sport mi ha aperto un mondo con riviste, video e musica. Quanto alla macchina fotografica, ce l’avevano sia i miei genitori che i miei nonni, ma la usavano solo per le occasioni speciali perché in Cile le pellicole costavano molto. Con mio fratello maggiore Alejandro rubavamo la macchina fotografica e facevamo qualche scatto, senza però mai finire il rullino per paura di essere scoperti. Ma venivamo comunque scoperti: quando il rullino veniva sviluppato e stampato uscivano fuori foto come quelle del nostro cane mascherato!

2. Cristobal Olivares J.(38) The Desert
Oltre al Festival Internacional de Fotografía en Valparaíso Fifv, qual è lo scenario cileno della fotografia?
È uno scenario che si sta sviluppando negli ultimi dieci anni. Il più importante è certamente il festival di Valparaiso, ma ce ne sono anche altri più piccoli che stanno avendo visibilità internazionale, come Foco – Festival de Arte y Opera Contemporanea nella città di Morelia, nel nord del Cile e Impresionante-Feria de Publicaciones y Arte Impreso che riguarda pure la stampa grafica. In Europa c’è già stata un’esplosione di libri fotografici, ma in Cile arriva tutto in ritardo. Questo per via della dittatura che per anni ha determinato un grande blocco della cultura.

La dittatura, appunto: qual è il rapporto con la memoria di quel periodo, considerando che la sua giovane età?
Fortunatamente per me e la mia famiglia non ho un rapporto diretto con gli eventi della dittatura, soprattutto in relazione alle persone sparite. Ma conosco chi ci è passato e sono cresciuto ascoltando queste storie. Sono nato nel 1988, l’anno del plebiscito, e la democrazia sarebbe arrivata due anni dopo, però i miei genitori e i miei nonni hanno convissuto con il terrore per la propria vita e con la frustrazione. Il concetto stesso di memoria è molto presente in Cile nelle arti visive e nella musica, anche in rapporto al paesaggio: sappiamo che nasconde persone scomparse che potrebbero essere nel mare, nel deserto o nella foresta. Le città sono piene di monumenti che sono luoghi della memoria, luoghi di tortura.

Come fotografo documentarista, il confronto è spesso tematiche sociali. «In Karen’s Name», ad esempio, viene affrontato il problema della droga. Lo considera un atto di denuncia?
Come per molti reporter, anche per me la macchina fotografica è una scusa per potermi avvicinare ad argomenti che altrimenti non sarebbe facile affrontare. E pure una modalità di esplorazione di me stesso. Non penso di fare un lavoro di denuncia, cerco di esprimere il mio punto di vista. La serie su Karen non qualcosa soltanto sulla tossicodipendenza; riguarda anche la fragilità dell’abbandono o le reazioni della società di fronte a questioni come l’omosessualità e la povertà che diventano ancora più forti quando c’è un mix tra l’uno e l’altra. Questioni che mi circondano e con cui sono cresciuto, perché non vengo da una famiglia ricca e non ho contatti che mi possono aprire ad altre possibilità di vita. In Cile il divario tra ricchi e poveri è molto grande.

10febbraioritrattointervistato -Cristobal Olivares (ph Manuela De Leonardis)
Cristobal Olivares (foto di Manuela De Leonardis)

Il lavoro «Il deserto» è costruito dalla giustapposizione tra l’immagine frontale del paesaggio, tendenzialmente monocromatico e i ritratti che non svelano l’identità dei soggetti, esaltati dall’utilizzo di colori vivaci presenti negli indumenti che indossano o nei fondali. Si tratta di un uso simbolico dei valori cromatici?
Certamente quando si usa il colore si cerca di trovare il modo migliore per rappresentarlo, ma per essere onesto, non sono un artista concettuale. Non sono andato nel deserto con una progettualità precisa. Prima ho compiuto le mie ricerche, soprattutto in merito alle persone da incontrare, ma poi il progetto è cresciuto gradualmente scattando le fotografie, facendo errori e tornando indietro. Anche se avessi voluto immagini del deserto più vive, non sarebbe stato possibile perché quelle sono le sue tonalità, per via del clima. I binari sono reali: vi camminano le persone per non attraversare i campi minati. L’unica cosa che si può fare, forse, è aspettare una luce migliore. Poi, sì, l’accostamento alle foto coloratissime dei domenicani dà l’idea di cui stavamo parlando. Sono persone allegre e molto calorose. E si sono trovate a contatto con un ambiente così cupo. Molti non sapevano che avrebbero dovuto attraversare a piedi il deserto, magari lo scoprivano a metà del viaggio. Però, in ogni testimonianza che ho raccolto, soprattutto ad Arica, la prima città che s’incontra oltre il confine, c’è sempre la consapevolezza di non voler tornare indietro.