Quanto sono lunghi 50 anni? Poco più di 300 pagine, quelle scritte da Felicia Langer nel 1974 e affidate al libro Con i miei occhi, ripubblicato da Zambon a pochi mesi dalla scomparsa dell’autrice, lo scorso giugno, a 88 anni (pp. 384, euro 18), con prefazione di Ugo Giannangeli.
Quello della nota attivista per i diritti umani e avvocatessa israeliana, fuggita in Germania dieci anni fa per le continue intimidazioni subite, è un diario di viaggio dentro l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, cominciata nel 1967. O meglio, dentro le sue origini, oggi radicate da cinque decenni di perseverante repressione. Un’occupazione lunga poco più di 300 pagine perché l’assenza di giustizia che la spinse a registrare allora quegli abusi risuona ancora oggi. Con identici mezzi e identiche giustificazioni.

DA ESPONENTE COMUNISTA e avvocatessa, Langer racconta il periodo tra il 1967 e il 1973, i processi di fronte ai tribunali militari israeliani a cui sono stati sottoposti i suoi assistiti, palestinesi di Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza. Racconta i ricorsi legali per impedire deportazioni in Giordania e demolizioni di case, per la revoca della detenzione amministrativa (carcere senza accuse ufficiali né processo, in violazione del diritto internazionale) e per ottenere condizioni di vita migliori per i prigionieri politici.

Tra le pagine scorrono le vite di decine, centinaia di palestinesi. Persone comuni, attivisti politici, giornalisti, donne e uomini, bambini, tutti catturati nella rete di una giustizia la cui bilancia pende da una parte sola. «Dove sono i giornalisti? Dov’è la televisione? Dov’è la coscienza? E la legge e i tribunali, dove sono?», si chiede Felicia di fronte a un altro sopruso.
La legge, viene da rispondere, c’è ed è implacabile. Ma non è una legge giusta né equa. A darne la misura sono le battaglie, quasi sempre perse, di Langer di fronte ai giudici militari israeliani, altra aberrazione del diritto: civili processati da un esercito che è al tempo stesso inquirente, giudice ed esecutore.

Un enorme processo che con le sue contraddizioni intrinseche e le sue montature legali farebbe impallidire le distopie di kafkiana memoria. È un processo che si auto-riproduce nella costante e sistematica violazione del diritto internazionale e delle risoluzioni delle Nazioni Unite. Non senza fantasia.

RILEGGERE OGGI IL LIBRO di Langer, pagine piene della frustrazione personale – professionale e umana – ma anche della necessità dell’insistere, è più impellente di quanto non lo fosse nei primi anni 70. Perché la storia non è cambiata, la via crucis palestinese nel sistema giudiziario israeliano resta la stessa, incancrenita intorno a una legislazione feroce e diseguale. E perché, in quelle pagine, sta la limpida spiegazione dell’oggi, la predizione di quello che sarebbero diventati i Territori occupati se privati a lungo di un minimo di giustizia: luoghi in cui a gestire la vita quotidiana, il naturale sviluppo delle comunità, l’attività giornalistica e l’impegno politico è la legge del più forte. Che zittisce, assedia, censura prima le idee e poi l’identità.