Che sia una mostra celebrativa, quella che il Padiglione di Arte Contemporanea dedica (fino all’11 febbraio) allo studio Gregotti Associati, non deve apparire una valutazione impudente. Al contrario, auguriamoci in futuro di visitare altre mostre di architettura così correttamente ragionate come questa, sia ancora nel padiglione di Gardella, con cadenza annuale come promette il suo direttore Domenico Piraina, sia in altri spazi, in particolare quelli già investiti di questo compito, com’è il caso della Triennale. Crediamo tuttavia che con più di mille progetti, dei quali centoventicinque in mostra, «la lunga, complessa e prolifica carriera» di Vittorio Gregotti, come nota Rafael Moneo in catalogo (Skira), meriti ancora altre indagini.
Materiali per nuovi studi
«Ci vuole sufficiente distanza – scrisse Werner Oechslin – per non perdere di vista la foresta per i troppi alberi». In questo senso i contributi raccolti – oltre a quello dell’architetto madrileno, di Franco Purini e di Joseph Rykwert, insieme all’«ordinamento oggettivo» dei materiali da parte del curatore Guido Morpurgo – sono di certo utili spunti affinché storici e critici indipendenti sappiano più avanti, anche con maggiore «distanza» rispetto alle personalità sopra citate, sviluppare molti temi che lo studio milanese ha elaborato in un così lungo periodo. Nell’immediato, però, possiamo condividere il principio generale che la mostra richiama e che ci interessa in modo particolare. Si tratta di comprendere quali margini abbia ancora la «cultura del progetto integrale», lascito del Movimento Moderno, al quale l’architetto novarese, appena giunto ai novant’anni, in modo costante ha sempre fatto riferimento. In altri termini, collegato a quanto già diffusamente esposto da Habermas, Maldonado e da molti altri, quali argomenti o contributi l’architettura dovrà disporre o offrire affinché il progetto della modernità (tarda o post che sia) possa configurarsi come barriera all’attuale deriva estetico-narcisistica dell’architettura stessa.
Gregotti ha indubbiamente dimostrato con il suo lavoro cosa ha significato agire all’interno di quell’enorme cumulo di interpretazioni e tesi, aporie e contraddizioni, ma soprattutto immagini, che costituiscono il patrimonio storico della modernità, senza cadere – questo gli va riconosciuto – nella vuota e a volta persino caricaturale imitazione stilistica. Per la mostra milanese il titolo scelto, Il territorio dell’architettura – lo stesso del saggio pubblicato da Gregotti nel 1966 e simile a quello impiegato nel 2016 a Parigi (L’Invention du territoire) per l’hommage del Beaubourg –, sembra ancor più avvalorare la tesi che vuole sempre valido l’orizzonte ideale che ha mosso la sua attività di architetto e dei suoi Associati. È l’idea-guida, oggi come allora, che la città, vista nelle sue connessioni con il paesaggio e interpretata nel suo divenire storico (l’«antropogeografia» dei territori), è l’oggetto, o meglio il «materiale», che l’architettura deve significare. Per modificare, però, l’esistente l’architettura, intesa come «poiesis dell’abitare e delle sue forme», si devono combinare teoria e prassi, pensiero critico e agire responsabile.
Non a caso il percorso espositivo inizia davanti alle vetrine che contengono i libri scritti e le riviste dirette («Edilizia Moderna», «Rassegna», «Casabella») da Gregotti. Intorno ai contenitori posti al centro dell’ingresso, che bene illustrano la sua vasta produzione saggistica e editoriale, si collocano sui tre lati: il lungo prospetto della Sede dell’Università degli Studi della Calabria (1973-’79), riprodotto su una grande parete bianca, le tavole d’insieme dei piani urbanistici di Torino (1987-’95) e Livorno (1992-’99) e il masterplan della Centrale off-shore per Enel-Ansaldo (1987). Ognuno di questi progetti richiama uno dei tre ambiti principali di interesse dello studio milanese: l’architettura, fondata sulla chiarezza dei suoi «principi insediativi»; l’urbanistica intesa come organizzazione dello sviluppo della città che si confronta con «i valori dei luoghi costruiti dalla storia»; la tecnologia, considerata mai come soluzione da esibire di per sé, ma legata alle finalità logiche e funzionali dell’edificio. Con l’architettura e il disegno urbano, convivono l’interior e l’industrial design, la grafica e l’allestimento di stand e mostre: esperienze tutte sottoposte alla stessa coerenza di fini e di metodo, prima ancora che di linguaggio.
Comunque è dentro la complessa costruzione della città europea che si dispiega in massima parte l’interesse della Gregotti e Associati, dove le specifiche tecniche dell’operare tutte confluiscono: «Dal cucchiaio alla città», per abusare anche noi della battuta di Ernesto Nathan Rogers che di Gregotti fu il maestro. È all’interno del dibattito sulla città contemporanea occidentale, quindi, che si inscrive la storia che narra la mostra, almeno nella fase centrale, dagli anni settanta ai Novanta, secondo un percorso che è diacronico decrescente. È in questo periodo che lo studio ha la sua massima espansione. Gregotti associa Pierluigi Cerri, Hiromichi Matsui, Pierluigi Nicolin, Bruno Viganò; dopo il 1981, con l’uscita degli ultimi tre, giungono Augusto Cagnardi e Carlo Magnani; poi, nel 1998, Michele Reginaldi. Il tentativo collettivo è, attraverso la partecipazione a una lunga serie di concorsi (alcuni dei quali vinti e con masterplan realizzati), di risarcire le sventure e gli errori (troppi) della città moderna. Sarà questa vasta quantità di elaborati e la costante riflessione critica sulla realtà dell’ambiente urbano a costituire le credenziali per i progetti in Cina degli anni Duemila: Shangai, (Pujiang Village, Recupero dell’area di Waitanyuan, 2002-’03), Zhou Jia Jiao (Piano per la Citic Area, 2007), Dalian. Una presenza, quella in Estremo Oriente, che continua a essere detenuta con il Piano di conservazione dell’architettura storica di Shangai. Occorre dire che la volontà di favorire insediamenti abitativi di media o bassa densità non è, come in Cina, solo una risposta a una precisa richiesta governativa. Nel corso degli anni il pensiero «cartesiano» che Gregotti (con Cagnardi) ha rivolto alla dimensione urbana ha subito sensibili cambiamenti passando nel 1993 dai “villaggi radiali” del Piano per una nuova città per 150.000 abitanti in Ucraina (Kiev), seriale e indeformabile quanto il Quartiere ZEN a Palermo di vent’anni prima, al raggiunto equilibro tra edificato e spazi vuoti della morfologia insediativa delle nuove città cinesi.
Case a corte in Lützowstrasse
La qualità urbana che si riflette in una migliore vivibilità è il risultato di un intenso periodo di sperimentazione e affinamento formale intorno alla costruzione di maglie regolari composte da insulae o isolati «a blocco». A Berlino con le Case a corte in Lützowstrasse (1984-’86), poi a Lisbona con il Centro Culturale di Belém (1988-’93), infine a Milano, con il Progetto Bicocca, la ricerca è stata sempre quella di modellare temi e tipi architettonici in grado di significare la città, rispondere in modo propositivo ai suoi «fenomeni», compresi nei suoi aspetti storici e sociali. La progettazione contiene in sé una «critica al presente», quindi l’architettura «attende, resiste, s’interroga», e nel marcare questi propositi prova a contrastare ciò che ormai è l’«evasiva decorazione» o il diventare «puro strumento» di potere.
Salite le scale, il ballatoio del padiglione contiene i progetti che Gregotti ha eseguito fino alla fine degli anni sessanta con Giotto Stoppino e Lodovico Meneghetti. È questa una stagione che, se pure non si richiama al neoliberty, come scrive Rykwert, mostra comunque chiara l’insofferenza verso le consumate offerte dell’International Style. L’allestimento della sezione dell’Ecologia del Tempo Libero alla XIII Triennale (1964) rappresenta un’invenzione fantastica rimasta insuperata, così come i magazzini di Palermo e Torino della Rinascente (1969) che Moneo individua come l’origine di quell’attenzione alla «nuova scala» che costituirà l’idea fissa che Gregotti porterà sempre con sé e che gli permetterà di inventare territori: un «frammento di verità alternativa e poeticamente appassionata»