«Un film che lo spettatore dovrà lasciar galleggiare davanti ai suoi occhi, come le immagini che si vedono dal finestrino di un bus che glissa, come una gondola, attraverso le strade di una cittadina dimenticata», Jim Jarmush descrive così Paterson, il suo ultimo lavoro e una delle cose migliori viste finora in concorso qui al festival. Rinvigorito dallo splendido, obliquamente autobiografico, Only Lovers Left Alive, il regista newyorkese è in piena forma, con un film che, allo stesso tempo, comunica la freschezza di uno sguardo nuovo, innocente, e la sacralità di qualcosa di antico, in via di estinzione.

Molti dei personaggi della filmografia jarmushiana sono custodi di saperi e/o tradizioni segrete, scomparse. Ritualità e ripetizione hanno un posto speciale nel suo cinema. La vita di Paterson (Adam Driver) e di sua moglie Laura (l’iraniana Golshifeth Farahani) è un rituale semplicissimo, che si ripete tutti i giorni, con variazioni quasi impercettibili. Lui di lavoro fa l’autista di bus, ma nei momenti strappati alle pause pranzo o prima di iniziare il turno, scrive poesie, in un quaderno segreto da cui non si separa mai. Lei, tecnicamente parlando, fa la casalinga, ma è posseduta da un fervore creativo inarrestabile che riversa in quadri, stoffe dipinte, chitarre e dolcetti – tutti in bianco e nero (come la pellicola che Jarmush ha usato così spesso e che oggi non si trova quasi più).

Lui è taciturno, modesto, introspettivo –non pensa a sé come a un poeta. Ogni parola che aggiunge al suo libretto è scelta con cautela, lentamente (vediamo le poesie nel loro divenire sullo schermo). Lei estroversa, solare, iperattiva; le basta iscriversi a un corso musicale per corrispondenza per convincersi di poter diventare una rock-star e guadagnare miliardi.

Jarmush filma questi poli opposti e complementari (una coppia perfetta –all’eccezionalità dei vampiri di Only Lovers si sostituisce qui una qualunquezza che la rende altrettanto speciale) in sei giorni della loro vita. In cui non succede quasi niente.

Paterson (che si chiama come la cittadina del New Jersey in cui vivono i due protagonisti) si alza al mattino poco dopo le sei, mentre lei dorme ancora. Sotto lo sguardo del suo bulldog inglese, Marvin, mangia sempre gli stessi cereali fatti come cerchietti rotondi, nella stessa ciotola trasparente disegnata di nero. Poi, percorrendo sempre la stessa strada, esce per andare al lavoro, dove guiderà uno stesso pullman per lo stesso tragitto. Alla sera, dopo aver amorevolmente assaporato le ultima novità di Laura (pittoriche, musicali o gastronomiche che siano), esce con Marvin per una passeggiata, che immancabilmente include uno stop alla taverna locale, un boccale di birra, e una conversazione con il barista, magari sui fantasmi celebri di Paterson –i poeti William Carlos Williams e Allen Ginsberg, e il comico Lou Costello, (Pinotto in Italia) -il più famoso di tutti, perché oltre a una statua gli è stato dedicato anche un parco. A volta passa dal bar anche una coppia in crisi. «I nostri Giulietta e Romeo», li chiama il padrone.

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Se Bill Murray, in Il giorno della marmotta, era condannato a rivivere la stessa giornata, come un incubo, fino a quando non diventava altro da se stesso, Paterson trova conforto nella routine del suo protagonista. E, per Jarmush, quella ripetizione diventa un modo per filmare l’anima del suo personaggio, facendola scorrere sulla superficie dei mattoni rossi dei vecchi edifici industriali lungo cui passa la mattina, nei colori caldi delle foglie d’autunno, fuori dal finestrino del bus, negli stralci di conversazione che carpisce ai passeggeri che vanno e vengono. L’occhio e l’orecchio liberi di fermarsi dove vogliono. Non c’è una connessione causale tra quello che vediamo/sentiamo e quello che Paterson affiderà alle pagine del suo libretto.

Le poesie che scrive sono in realtà del poeta contemporaneo Ron Padegtt, ma lo spirito che aleggia sul film è quello vividamente minimalista di William Carlos Williams, amatissimo dai poeti della beat generation (Ginsberg più di tutti), e convinto che: «non ci sono idee se non nelle cose».

Ma, meno che un film sulla bellezza delle «cose semplici» (come è stato genericamente stereotipato da parecchi critici), o sulla «poesia del quotidiano», Paterson sembra un film sulla scommessa di fotografare l’interiorità , e l’interiorità di un artista. Paterson (il personaggio) si descrive agli altri come un autista di bus, non come un poeta, ma è chiaro cosa quelle parole sulla pagina bianca significano per lui. Tra le scene più delicate del film, infatti, sono i suoi incontri con altri due poeti – una bambina che ricorda la bimba lettrice dell’altro, bellissimo, film di Jarmush girato in New Jersey, Ghost Dog: The Way of the Samurai; e un giapponese, venuto a visitare la città di William Carlos William.

Sono scambi brevi di battute. Incontri «in codice», istanti di intese privilegiate. Quanto prezioso, fragile, sia quel mondo interiore, tradotto in versi –senza rima- lo verifichiamo nella violenza con cui ci colpisce quello che succede alla fine. Anche lì quasi completamente senza «dramma».