Robert Rodriguez è il cineasta globale par excellence. Non perché faccia film in tutto il mondo alla stregua di Woody Allen sempre impegnato a raccattare soldi dalle agenzie del turismo. Anzi: più glocal di Rodriguez, nessuno mai. Lui dal suo angolo di mondo, stretto fra Texas (Tejas) e Messico, non si sposta. Mai. Figurarsi: con un green screen ha a portata di mano tutto quello che gli serve. No. Lui è un cineasta globale non solo perché fa tutto da solo, ma questo lo sanno anche i sassi, cosa che agli esordi della sua carriera ha messo in crisi i ligi sindacati di settore, ma perché a partire da una certa idea di Messico, Rodriguez parte all’arrembaggio della finanza globale, delle frontiere chiuse, dei razzismi e della società dello spettacolo.

Temperamento punk e cafone racchiuso in una stazza che non sfigurerebbe in un roadie dei ZZ Top, il nostro è un improbabile mix fra Tequila da quattro soldi e un energy drink illegale. Il cineasta ideale per Tex, verrebbe da dire. Il cinema «più d’autore» immaginabile, oggi. Scrostando un po’ della patina citazionista accumulatasi sui suoi film, ci si rende conto che Rodriguez è uno che ha un sacco di cose da «dire». «Dire» proprio nel senso di «contenutismo». Come un Lizzani pop. Il primo Machete scavava nella ferita della migrazione che dal sud della povertà muove verso il nord del glamour. Il sequel amplia il discorso a dimensioni… «stellari».

Per Rodriguez, il Messico è un laboratorio rivoluzionario. Cormaniano fino al midollo, sfrutta sino alle estreme conseguenze l’idioletto del cinema di genere trasformandolo nel processo in un raffinato esercizio di agit-prop pulp. Machete, assurto ormai al rango degli eroi sottoproletari che da Maciste passando per Bruce Lee, Stallone e Jackie Chan, confondono in unico segno attore e ruolo, è il grimaldello con il quale Rodriguez fa saltare tutto ciò che resta della sintassi dei generi e di eventuali residui di tassonomie. Attraverso un filo di straccio di storia, sempre uguale poi, da James Bond a Austin Powers, ossia salvare il mondo da un pazzo, Rodriguez rimette in scena il suo petit theatre che sa di cordite e fumetti, sessappiglio russmeyeriano e kung fu di serie Z, confermandosi ancora una volta una specie di Tex Avery rock’n’roll. Come Marvin il marziano, creato da quel gran genio di Chuck Jones, anche Robert Rodriguez si diverte a fare «Ka-boom!». Solo che lui non se la prende con il povero Daffy Duck ma con l’imbecillità dominante.

Rodriguez, infatti, riprendendo un’affermazione fatta da Antonio Margheriti tanto tempo fa a Torino, invece di fare Ballando ballando ha fatto «Esplodendo, esplodendo». Machete, al soldo del Potus, un geniale Carlos Estevez che assomiglia come una goccia d’acqua a… Charlie Sheen, schizza come una pallina di flipper da una situazione all’altra: ingranaggio post-narrativo della decostruzione di massa, Machete assurge all’anarchica grandezza di un Looney Tunes creato da un Jack Hill in acido. E in questo frullatore pop, come schizzi di action painting pollockiano fatti piovere con piacere iconoclasta su ciò che resta del nostro immaginario collettivo, Rodriguez, alla stregua di un agitatore bolivarista, intona ancora una volta la cancion de la revolucion mundial! Le maschere dello star system cadono una dopo l’altra (Geniali Lady Gaga, Banderas, Walton Goggins e Cuba Gooding Jr.).

Solo le amazzoni del Terzo Mondo che premono alle porte del muro degli Usa non cadono mai. Loro combattono anche da cieche come Madonne piangenti. Ogni gag di Machete, oltre a richiamare gli slowburner di Stanlio e Ollio, o le comiche dei Keystone Cops, sono come dei fulminei tweet alla faccia dell’imbecillità dominante. Come dire che Rodriguez è il pensatore più veloce de West. Reinventando il cinema di Corman, bypassando alla stragrande l’angolino stretto del tarantinismo nel quale commentatori pigri vorrebbero incastrarlo, se ne esce con il cinema di serie B più economico e ricco possibile. Autentico fautore dell’eleganza lumpen, Rodriguez con i suoi film, e soprattutto con questo irresistibile Machete Kills!, ricodifica appartenenze tribali utilizzando sfacciatamente la magia cheap del green screen come se tutto il mondo si fosse ridotto alle dimensioni di un gioco, serissimo, come tutti i giochi, da Spy Kids. Davvero: il mondo non basta (più).