È difficile determinare il momento esatto nel quale il viaggio in Italia ha cessato di essere un’arte ed è divenuto uno degli intrattenimenti più ambiti dal turismo di massa. Indubbiamente, dal Grand Tour erudito sette e ottocentesco celebrato da scrittori europei e americani – tra i quali Addison, Beckford, Goethe, Stendhal, Lady Morgan, Byron, Dickens, Hawthorne – ai pacchetti vacanza all inclusive, che hanno fatto delle principali città italiane la meta di milioni di turisti asserviti alla logica del consumo guidato, sembra essere passata talmente tanta acqua sotto i ponti da rendere i due fenomeni incommensurabili.

In realtà, come sottolinea Rossana Bonadei in un interessante studio sulla cultura del viaggio (I sensi del viaggio, FrancoAngeli 2004), le cose non stanno esattamente così. Anzitutto, i riflessi antropologici che muovono il viaggiatore illuminista e romantico – guardare per sapere e guardare per godere – sono gli stessi che sollecitano il turista contemporaneo. Poi, sul turista in quanto borghese in vacanza grava un sospetto ancor più pesante di quello che investe il «pigro aristocratico», ma che a esso lo lega indissolubilmente: rappresentare una «copia degenere» di quest’ultimo e, allo stesso tempo, essere «un attore spregevole» di quell’economia capitalistica cui il sistema riconosce di tanto in tanto il privilegio della libertà condizionata nonché un ruolo di eterno gregario culturale.

Ebbene, nessun altro romanzo inglese come Camera con vista di E.M. Forster, del 1908, riesce altrettanto bene a catturare le inflessioni di quella zona grigia nella quale si consuma il passaggio dal viaggio in Italia inteso come archeologia culturale alla vacanza italiana vissuta come esperienza di un tempo liberato, acquistata al prezzo del disciplinamento sociale e spirituale caratteristico della modernità.

Subito dopo la laurea
Forster era figlio di una governante e orfano di padre e sarebbe stato destinato a una tradizionale professione borghese se non avesse ricevuto il lascito di una prozia che gli consentì di coltivare la passione per le lettere, il giornalismo e i viaggi. Tre dei complessivi sei romanzi scritti tra il 1905 e il 1914 sono il frutto del lungo viaggio in Italia intrapreso insieme alla madre alla fine del 1901, immediatamente dopo aver conseguito la laurea. Un viaggio di esordio che rappresentò per il giovane «apostolo» di Cambridge un rito di iniziazione tanto alla scrittura creativa quanto a quella particolare estetica sociale, etnocentrica e satura di protocolli, che ha contraddistinto con poche eccezioni l’esperienza degli inglesi nel Belpaese.

L’estetica proto-turistica era ancora in auge nell’Inghilterra edoardiana, ma alla sensibilità modernista di Forster appariva destinata a una rapida obsolescenza sotto le pressioni della massificazione dei gusti e dei consumi.
La storia è nota anche per via del patinato adattamento cinematografico che ne ha fatto la produzione Merchant-Ivory nel 1985 con la sceneggiatura di Ruth Prawer Jhabvala. Lucy Honeychurch, una giovane inglese appartenente alla media borghesia e residente nella verde contea del Surrey, si trova in vacanza a Firenze con una cugina nubile che le fa da chaperon, assicurandosi che il contatto con l’Italia e gli italiani sia sufficientemente diluito da non presentare insidie alla sua rispettabilità. Alla pensione Bertolini nella quale le cugine sono ospiti – definita dal narratore come un «tentativo cockney di comunicare la grazia e la cordialità del Sud» – alloggiano anche gli Emerson, un padre e un figlio coetaneo di Lucy, dai modi diretti e dalle esplicite tendenze libertarie e socialiste, i quali si offrono generosamente di scambiare le loro camere con vista con le stanze assai meno confortevoli toccate in sorte alle signore. Dal valore simbolico dello scambio, accettato con sufficienza da Charlotte soltanto per compiacere Lucy (e soprattutto sua madre, che sovvenziona la vacanza di entrambe), scaturisce una concatenazione di eventi materiali e immateriali che trascina i due giovani in una accelerata educazione sentimentale e culmina nell’happy ending tipico della commedia sociale di austeniana memoria. Un genere che, nel 1927, Forster avrebbe descritto – in Aspetti del romanzo – come il contributo più significativo della civiltà inglese alla grande tradizione del romanzo europeo.

Da seguace dell’etica analitica di E.G. Moore, Forster era convinto che, benché abissalmente lontano dalle profondità psicologiche del romanzo russo, anche il romanzo inglese del nuovo secolo possedesse gli strumenti per raccontare quell’intimità delle relazioni personali nella quale si esprime il valore più alto dell’esistenza. La scelta del tema italiano risponde proprio all’esigenza di sperimentare un linguaggio romanzesco dell’intimità, dislocando l’azione sul piano dell’incontro con un’alterità geografica e culturale che, se per un verso sembra facilitare ai personaggi tutte le possibili opzioni di sconfinamento (nazionale, generazionale, sociale, religioso, sessuale), per l’altro, alle soglie della Prima Guerra Mondiale, si rivela come una delle tante mitologie che alimentano la pratica moderna della villeggiatura.

Così, mentre i pragmatici Emerson si godono il soggiorno in Toscana come un felice intermezzo nel corso di esistenze ordinarie e senza avanzare pretese di attingere a verità superiori, Lucy resta sospesa tra due modi di concepire la vacanza in Italia – il richiamo colto dell’arte e quello vitalistico della natura – che le appaiono ugualmente inadeguati al bisogno impellente di autoconoscenza e di esperienza del mondo. Rimasta sola e senza l’ausilio dell’immancabile guida Baedeker nella basilica di Santa Croce (che le appare come un freddo granaio), la ragazza si perde tra statue e lapidi, non riconosce gli affreschi di Giotto e sperimenta l’inefficacia delle Mattinate fiorentine di Ruskin a produrre qualsivoglia reazione di entusiasmo verso la bellezza che la circonda. Allo stesso modo si ritrae davanti all’affettata esaltazione di Mrs Lavish, un’altra illuminata connazionale che la invita ad abbandonarsi all’ebbrezza del contatto sensoriale con la città: «L’odore di Firenze! Ogni città, permetta che glielo insegni, ha il suo particolare odore!» «È un odore gradevole?» «Non si viene in Italia in cerca di cose gradevoli. Ci si viene in cerca della vita».

Ciò che inizialmente allontana Lucy dagli Emerson – e che la riconduce nella loro orbita in Inghilterra nel finale romantico – è che, mentre questi vivono nel presente e aspirano soltanto a una vacanza appagante, lei è programmata dal suo ambiente a consumare un rito culturale che ha il sapore di un anacronistico pellegrinaggio nel passato. Indurla a scoprire che il suo desiderio si muove in altre direzioni, e accettare così l’onere della individualità, è il compito assegnato dal romanzo all’Italia contemporanea, che Forster tenta di sottrarre a ogni raffigurazione esotica o pittoresca – senza, tuttavia, riuscirci del tutto.

Un eroina trasferita in strada
Cosa restava da fare allo scrittore edoardiano per «avvicinare la protagonista alla vita», come auspicava negli stessi anni il celebre saggio Mr Bennet e Mrs Brown dell’amica Virginia Woolf? Il primo passo era farla uscire dalla confortevole camera con vista e portarla sulla strada, incoraggiarla a confrontarsi con lo spazio pubblico storicamente meno accessibile alle donne anche al costo di svelarne gli aspetti più imponderabili e minacciosi – nella fattispecie il traumatico accoltellamento sulla Piazza della Signoria, il cui ricordo ossessionerà Lucy ben oltre il viaggio in Italia.

Non c’è dubbio che dietro Lucy Honeychurch incomba l’ombra di Daisy Miller, la giovane americana anticonformista descritta nell’eponima novella di Henry James che, trent’anni prima, aveva pagato a caro prezzo le passeggiate romane in compagnia di un giovanotto. Ma davanti a Lucy si staglia altrettanto nitidamente il profilo stilizzato dell’artista moderna tratteggiato da Virginia Woolf in Street Haunting, la quale non ha più bisogno di andare in villeggiatura per attraversare indisturbata tutta la città al solo scopo di acquistare una matita.