Le opposizioni siriane danno il via libera al negoziato e poi lo mettono in stand by. Ieri l’Alto Comitato per i Negoziati (Hnc) si era detto pronto a partecipare al tavolo che si dovrebbe aprire domani a Ginevra (ma che probabilmente sarà rinviato al 14 marzo), smentendo le dichiarazioni di Riad Hijab. Il leader dimissionario della Coalizione Nazionale venerdì aveva parlato di «momento non adatto», facendo presupporre l’ennesimo boicottaggio.

Nel pomeriggio di ieri, però, è arrivato un parziale stop: il presunto raid russo contro un deposito di carburante a Idlib (12 vittime) ha spinto l’Hnc a mettere in discussione la partecipazione. A monte dell’invio in Svizzera della propria delegazione stava la relativa tenuta della tregua: gli ultimi giorni hanno visto una riduzione maggiore degli scontri.

«Abbiamo notato un declino consistente delle violazioni governative e un progresso nella consegna degli aiuti», aveva detto il portavoce Agha. Nelle stesse ore la Russia annunciava la concessione di due basi militari: gli aiuti saranno immagazzinati a Tartus e Latakia e poi distribuiti con mezzi militari russi.

I civili, quasi rassegnati a subire la volatilità della diplomazia mondiale, non nascondono la speranza, rincuorati da un effettivo calo delle violenze. Parzialmente diversa la situazione a nord, dove la presenza radicata di al-Nusra e Isis impedisce una seria riduzione di raid e attacchi islamisti.

La stessa cosa che succede nel dimenticato Iraq. Domenica l’ennesimo attentato rivendicato dallo Stato Islamico ha ucciso 70 persone ad un checkpoint di Hilla, sud di Baghdad: un camion bomba è esploso mentre decine di auto erano in fila per attraversare il posto di blocco, dimostrando ancora una volta la capacità di infiltrazione degli islamisti in tutto l’Iraq.

Lo stesso giorno Mosca denunciava il lancio di razzi dalla Siria verso il territorio turco da parte di al-Nusra, «azioni volte a provocare una reazione militare turca e l’ingresso delle truppe in Siria, che inevitabilmente interromperebbe il processo di pace». Come? Secondo la Russia imputando la responsabilità degli attacchi a Damasco.

Un’accusa che sottintende al sostegno che Ankara riconosce ai gruppi islamisti e che fa del presidente Erdogan un partner sempre meno affidabile. Inaffidabile sì, ma quasi inevitabile: nei giorni in cui la libertà di stampa in Turchia vive uno dei periodi più bui dell’autoritarismo del “sultano” Erdogan, il governo turco discute con Bruxelles della cosiddetta emergenza rifugiati. L’asso nella manica del presidente che sa di poter così zittire le flebili critiche della fortezza Europa che finge di non vedere le censure, le repressioni di ogni protesta, il controllo capillare esercitato su servizi segreti e magistratura. Ma soprattutto la Ue tappa vergognosamente occhi e orecchie sulla brutale campagna anti-kurda che ha già ucciso centinaia di civili e devastato intere città.

L’immagine più cruda del pugno di ferro governativo la danno gli ultimi due numeri del quotidiano più letto in Turchia, Zaman, commissariato con l’accusa di legami con organizzazioni terroristiche. Dopo l’attacco con cannoni d’acqua, proiettili di gomma e lacrimogeni contro i manifestanti ritrovatisi sabato sotto la sede del giornale, i giornalisti erano riusciti a far uscire un ultimo numero prima che venisse bloccato l’accesso agli uffici e venissero oscurati sito, pagina Facebook e account Twitter: «Costituzione sospesa», il titolo che occupava la prima pagina del giornale di opposizione.

Ventiquattro ore dopo quello stesso quotidiano ha cambiato faccia: in prima pagina una foto del presidente Erdogan e la notizia dell’inaugurazione di un terzo ponte sul Bosforo, progetto da 3 miliardi di dollari per collegare la Istanbul europea a quella asiatica. Nella colonna di sinistra campeggiava invece l’elogio della campagna anti-Pkk e le immagini dei funerali dei soldati «martiri».

Nemmeno una riga sulla repressione delle proteste per l’occupazione governativa di Zaman, mentre nel sito web oscurato campeggiava un messaggio a dir poco inquietante: «Vi forniremo al più presto maggiore qualità e servizi più oggettivi».

Ma più di tutto a colpire come un pugno in faccia è stato l’articolo che raccontava dell’evento organizzato dalla presidenza per la Festa della Donna: di nuovo una foto di Erdogan che stringe la mano di un’anziana. Peccato che nello stesso momento le centinaia di donne scese in piazza a Istanbul e Ankara per protestare contro le discriminazioni subite siano state aggredite dalla polizia, ferite, arrestate. La loro colpa è aver ricordato che la Turchia è solo 77esima su 138 paesi nella classifica stilata dall’Onu sulla parità di genere.