Antica e vexata quaestio è quella dell’identità nelle arti e nel pensiero. Secondo Giorgio Agamben è impossibile recintare entro uno steccato nazionale il «pensiero», impossibile cioè parlare di una filosofia italiana, tedesca o francese. Leibniz, ad esempio, nato a Lipsia, scrisse tutte le sue opere in francese; si trattava dunque di filosofia tedesca o francese? Il problema se lo pose, in anni recenti, Peter Eisenman omettendo nel suo Mausoleo di Berlino dedicato agli ebrei assassinati in Europa ogni simbolo religioso o di appartenenza e rifiutando la definizione di monumento ebraico con il dichiarare: «l’ho costruito per i tedeschi, non per gli ebrei».
Bruno Zevi aveva, invece, un’opinione diametralmente opposta, e in questi giorni che ricorre il suo centenario (era nato nel 1918, è morto nel 2000) celebrato attraverso convegni, mostre e seminari, sono stati ristampati da Giuntina alcuni suoi scritti, sicuramente fra i più significativi, che erano confluiti nel volume Ebraismo e architettura (pp. 132, euro 10,00, nuova edizione, ampliata, a cura di Manuel Orazi).
Le due passioni della vulcanica personalità di Zevi – architetto, urbanista, storico, critico per «l’Espresso» e «L’architettura cronache e storia», docente universitario, parlamentare per il Partito Radicale – furono insomma riunite in questo volumetto poco prima di morire, non a caso per la storica casa editrice di cultura ebraica Giuntina.
A parere di Zevi non solo l’identità ebraica esiste, perché ogni comunità ne pretende una specifica, ma, con la sua natura policentrica e antidogmatica, ha addirittura influenzato e modificato le diverse identità nazionali tradizionali: «Il successo della letteratura ebraica contemporanea, a cominciare da Saul Bellow, conferma: gli ebrei prevalgono perché nella loro condizione atavica si rispecchia un’umanità smarrita, estraneata, mercificata, succube d’ogni violenza, quasi in attesa di un’apocalittica ecatombe. L’ebraismo insomma impronta largamente la cultura occidentale, tanto che lo scambio tra ebrei e non-ebrei è intenso ad un grado che non ha precedenti».
Ma soprattutto, passando in rassegna l’opera di artisti ebrei Zevi sosteneva quanto il pensiero, e di conseguenza l’essenza stessa dell’arte e dell’architettura ebraiche, consistessero nell’eresia, nel respingere la staticità della cose e delle idee.
L’ebraismo, che fra mille contraddizioni ha generato la triade più tellurica della modernità, vale a dire Einstein, Freud e Schönberg – Zevi escludeva Marx a causa delle sua posizione di socialista utopico dunque antimarxista (vedi il saggio Marxismo e ebraismo) – rappresenta dunque la cultura che più ha minato le certezze fondamentali dell’ordine prestabilito, dell’armonia, della linearità.
Nasce di qui l’amore di Zevi per le creazioni degli architetti dallo spirito più irrequieto: Michelangelo, Borromini, Fran Lloyd Wright, Giuseppe Terragni che pure era stato fascista, Le Corbusier (quello più maturo della chiesa-scultura di Ronchamp), tutti non ebrei.
Ma il suo cuore batteva anche per i suoi correligionari, per quelli che lui chiamava «i poeti della dissonanza», come Erich Mendelsohn, Zvi Hecker, Frank O. Gehry e Daniel Libeskind, questi ultimi da lui apprezzati fin dagli esordi (non altrettanta stima nutriva per Peter Eisenman o Robert A. M. Stern, troppo accademici a suo giudizio).
Insopportabile trovava, al contrario, «la setta sangallesca», Bernini, Valadier e tutto il Neoclassicismo, Piacentini, Aldo Rossi – memorabili i suoi strali contro questi ultimi, «la simmetria è fascista e pure segno di omosessualità latente».
Nella sua vita conobbe la durezza delle leggi razziali e dell’esilio in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove studiò a Harvard con Walter Gropius e dove frequentò Gaetano Salvemini e altri antifascisti espatriati. Al suo ritorno a Roma divenne da subito un punto di riferimento per la cultura architettonica italiana, anche come consulente di architettura per la casa editrice Einaudi. I suoi familiari scamparono alla Shoah solo perché emigrarono, come pochissimi altri, negli insediamenti ebraici in Palestina già nel 1940, collocandosi dunque fra i primi sionisti italiani.
Ebraismo e architettura, con una doppia epigrafe di Dante Lattes e Edoardo Persico, è dunque un fulgido esempio della multiforme e ricca produzione della saggistica italiana del Novecento, qui nella sua variante più infuocata. Spassosissimo è ad esempio il saggio inedito finale del 1998, Spazio e non-spazio ebraico, dove Zevi lancia il suo insopprimibile urlo libertario: «No al classicismo, perché punta sull’ordine a priori. No all’illuminismo, perché propugna idee universali, assolute e assolutiste. No al cubismo, perché astrae dalla materia, riguarda il montaggio di forme e non l’autofarsi della forma. L’ebraismo in arte punta sull’anticlassico, sulla destrutturazione espressionista della forma; rigetta i feticci ideologici della proporzione aurea, e celebra la relatività; smentisce le leggi autoritarie del bello e opta per l’illegalità e la sregolatezza del vero».