Cara Norma, il manifesto che nasce il 28 aprile 1971, anticipato nel 1969, e in qualche modo svezzato dalla rivista madre che gli dette il nome, per molti della mia generazione è stato un evento fondamentale.

Non avrei certo immaginato che la mia collaborazione al giornale sarebbe durata 30 anni il giorno in cui uscì il mio primo articolo: una recensione datata 3 aprile 1974 a un’analisi di Franca Pieroni Bortolotti sulle responsabilità negative del neonato Partito socialista sull’emancipazione della donna. A mesi avrei compiuto 28 anni, insegnavo letteratura contemporanea alla Sapienza e amavo la poesia, non mi ero mai interessata di politica, ma l’esplosione del maggio francese mi colpì.

In seguito all’incontro con Giuseppina Ciuffreda, che faceva parte del gruppo direttivo dei fondatori del manifesto, quell’attenzione si trasformò in una passione. Lei mi politicizzò, trasformandomi in una «compagna», io la incuriosii sulla novità di un movimento di liberazione delle donne che annunciava al mondo che «il personale» era politico.

Insieme a molte altre inventammo una faticosissima «doppia militanza» fra il movimento geloso della sua autonomia e il gruppo politico misto.

A dire la verità, di politica dentro il collettivo del manifesto non ne feci molta, sicura che in quelle acque sarei stata destinata ad affogare. Ma mi inorgogliva leggere la mia firma accanto a quella di grandi giornalisti che scrivevano articoli meditati e impeccabili, sintetici e puntuti come quelli di Luigi Pintor, per esempio, mitico creatore di titoli combinati a contrappunto, efficaci e antiretorici.

E non posso fare a meno di chiedervi, postumi giornalisti del giorno dopo, come fate, dopo 50 anni, a conservare, tutti i giorni, la non facile arte del titolo a sorpresa?

E cosa dire di Rossana Rossanda che interveniva per esplicitare il suo dissenso, in una sintassi circonflessa eppure inesorabile e su cui io ruminavo a volte per giorni? Le dissi una volta: perché non raccogli i tuoi articoli? E lei di rimando alzava, talvolta il sopracciglio, talvolta le spalle.

A scanso di equivoci voglio però ribadire che anche oggi il manifesto è scritto assai bene e che leggervi è un piacere. E io lo faccio tutti i giorni con le forbici in mano per conservare preziosi ritagli che mi informano sulla condizione della parte più debole e meno ascoltata della popolazione mondiale, ma anche tanti ricordi, di protagonisti e di esperienze di cui si vuole conservare la memoria per i più giovani.

Ma vorrei tornare a quel lontano articolo del 1974, ripensare a quello che allora mi stava molto a cuore.

Nel 1892 il Partito socialista non aveva certo portato bene all’emancipazione femminile. E nel 1921, anno della scissione comunista di Livorno, un nuovo partito impose una strategia della questione femminile, leninista e Terzinternazionalista. Intuivo che negli anni Settanta la nostra ambizione di non scindere l’emancipazione economica dalla politica della liberazione, dagli stereotipi e dai pregiudizi non sarebbe stata una passeggiata. E che in ogni caso non ci avrebbe reso la vita facile.

Ma chi la voleva del resto una vita sciapa, o troppo zuccherosa? E posso affermare che quell’aggettivo che in caratteri rossi, non propagandistici, ma ben visibili, ribadivano ogni giorno la scelta comunista del quotidiano su cui avevo cominciato a scrivere assunse per me un senso non chiarissimo, ma non contestabile.

Nessuna pressione del resto subii mai dalla direzione del giornale. Scrivevo liberamente di femminismo o di letteratura, impavidamente litigando con Franco Fortini che mi aveva insultato per una lettura un po’ troppo ardita della trasposizione televisiva dell’Anna Karenina. E Rossana mi spediva divertiti bigliettini informandomi, con un pizzico di ironica allegria, che ogni giorno qualcuno dei compagni o dei lettori esprimeva la sua adesione a uno o all’altra dei due contendenti. Pure io sapendo benissimo che ogni confronto con il grande Fortini era assolutamente improprio.

Che strani tempi, quelli, di amorosi conflitti, di spavalderia e di modestia priva di vezzi.

E oggi? Non dovremmo forse interrogarci sul senso che diamo alla parola «comunismo»? Cos’è che ci lega? Un principio di fedeltà ormai quasi inconscia, una traccia genetica, una sorta di Dna inattaccabile? Un segno di eccellenza come il marchio doc che contraddistingue alcuni grandi vini d’annata? Cosa significa per noi definirci un compagno o una compagna?

Ritratti in versi li ha recentemente pubblicati per la collana di manifestolibri, Tommaso Di Francesco in un volumetto composto di quattro poemi, quattro poesie colloquiali e una favola dedicato ai fondatori del Manifesto e intitolato I Rabdomanti. E con lui amico di tempi lontani in cui condividemmo la nostra passione per la poesia mi congratulo.

Ma tornando sulla mia domanda: cosa significa per noi oggi sentirsi un compagno o una campagna, vorrei chiudere con le parole di Rossana Rossanda intervistata il 26 ottobre 2018 dal conduttore televisivo Diego Bianchi.

Fu la sua ultima intervista. «Caro compagno… certo è difficile dire oggi questa parola. Non capiscono più in che senso lo dicevamo. È una bella parola ed è un bel rapporto quello tra compagni. È qualcosa di simile e diverso da amici. Amici è una cosa più interiore, compagni è anche la proiezione pubblica e civile di un rapporto in cui si può non essere amici ma si conviene di lavorare assieme. E questo è importante, mi pare».