Cento anni separano il presente da un «evento» che ha cambiato il corso della Storia. Un secolo dove la speranza di una trasformazione radicale del vivere in società si è nutrita dell’immaginario di uomini e donne senza voce che prendevano la parola e sovvertivano gli assetti di potere. Era il coronamento di quella rivoluzione che Karl Marx aveva inseguito per tutta la sua vita. Soltanto che il filosofo di Treviri l’aveva vista possibile in altri paesi da quella dove accadde. Soltanto in tempi recenti studi sull’Ultimo Marx (il titolo del volume di Marcello Musto per Donzelli) hanno messo in evidenza come, stanco e con il corpo segnato da anni di studio e condizione precarie, si interessasse alla formazione sociale russa, intravedendo anche in quell’immenso territorio possibilità di una rivoluzione.

La rivoluzione d’ottobre aveva comunque cambiato il corso della storia. Solo un giovane Antonio Gramsci diede un titolo «ambivalente» per qualificare la Rivoluzion. Era «La rivoluzione contro il Capitale», alludendo al fatto che la presa del Palazzo d’Inverno poteva essere letta sia come una rivoluzione contro il Capitale, ma anche come esito diverso da quello previsto dall’autore del Capitale. Una ambivalenza potente che apriva la strada a inedite opzioni politiche.

DI QUELL’ESPERIENZA rimane ormai ben poco. Da una parte c’è chi chi la demonizza come l’avvio di un progetto autoritario di imporre con la violenza un mutamento antropologico – l’uomo nuovo – contrario alla natura umana. Dall’altra una diffusa nostalgia di quell’ordine politico e sociale sovietico da contrapporre alla miseria del presente. Due atteggiamenti opposti, ma tuttavia speculari nel rifiuto di ogni possibile cambiamento dell’esistente. Crollato il Muro di Berlino rimaneva solo il capitalismo a plasmare la vita sociale. Per i «nostalgici», invece, ogni movimento, esperienza politica radicale del presente è niente rispetto alla grandiosità dell’Ottobre sovietico. Il nichilismo e l’antipolitica a sinistra hanno radici in questo rifiuto a vedere la ricchezza del possibile.

Il convegno e la mostra romane che si aprono a Roma la prossima settimana vogliono passare indenni nel passare tra la Scilla della demonizzazione e il Cariddi della nostalgia, forti di una platea di relatori – e di artisti – che in tutti questi anni hanno ripensato Marx e, in misura minore Lenin, senza nulla concedere a una lettura consolatoria e canonica. Ognuno lo ha fatto in solitudine oppure in sintonia con il movimenti sociali che hanno scandito la vita planetaria in questi anni che ci separano dal crollo del Muro di Berlino. Ma nessuno ha dato vita a una «scuola».

LA DECLINAZIONE plurale del marxismo e del comunismo consegna un corpus teorico articolato, differenziato, ma niente affatto crepuscolare. Tra i relatori invitati ci sono teorici che hanno messo Marx sottosopra per metterlo a verifica in un capitalismo divenuto mondiale. E come è cambiato il processo produttivo, intendendo con questo non solo il lavoro vivo, ma anche la circolazione delle merci e il ruolo preponderante della finanza, mutate sono anche le forme politiche. Insomma, gli appuntamenti romani possono essere considerati come una platea di chi in questi ultimi anni «del nostro scontento» ha continuato a produrre teoria. La condivisione del sapere non è solo propedeutica alla sua diffusione, ma può aprire nuovi percorsi di ricerca.

L’eterogeneità dei punti di vista può risultare un limite. Può infatti risultare un occasione dove più che una sinfonia, l’esito sia la declamazione di cose già lette e scritte. Ma come in ogni concerto, quel che conta è seguire la partitura. Quella che emerge dal nutrito programma di questo convegno è una partitura ambiziosa e niente affatto neutrale. La posta in gioco, infatti, è una rinnovata e pungente critica dell’economia politica. Per vedere se le basi di tale obiettivo saranno state gettate, ci sarà tempo e modo. Quel che è evidente è che da parte degli organizzatori non ci siano preclusioni e che la pratica scelta sia quella dell’ascolto. D’altronde che il marxismo e il comunismo dovessero essere declinati al plurale lo aveva già scritto, a mo’ di introduzione di un’opera dimenticata ma tuttavia ancora fertile, era stato lo storico inglese Eric Hobsbawmn, quando nel primo volume della Storia del marxismo pubblicata da Einaudi invitava ad abbandonare i lidi sicuri del già noto per inoltrarsi nel mare in subbuglio di quel capitalismo in via di mutazione. Ma anche questa è storia passata, anche se di un passato prossimo.

Nelle pagine che seguono ci sono solo frammenti di quanto verrà presentato a Roma. Ma interessanti sono le quaestiones che saranno affrontate e di come sono state affrontate da parte degli intervistati o di chi ha mandato il suo contributo per iscritto.
Il decalogo dei temi scelti è però chiaro.

GLOBALIZZAZIONE, nuova divisione internazionale del lavoro, mutamento della composizione sociale del lavoro vivo. La mobilità e il diritto di fuga esercitato dai migranti. Il conflitto tra i sessi, non rinchiudibile nella gabbia delle pari opportunità o di un emancipazionismo che taglierebbe fuori gran parte dell’altra metà del cielo. La Rete come «incarnazione» di una pervasiva società del controllo, ma anche come spazio pubblico attraversato dai conflitti sociali e di classe. Ma anche sinonimo di quello che in ambito anglosassone viene chiamato platform capitalism, cioè di tutte le società, imprese che puntano a valorizzare, capitalisticamente, la circolazione e distribuzione delle merci. Già questi primi elementi lasciano intravedere la matassa da sbrogliare. E se a questo si aggiunge le quaetiones inerenti il Politico il rischio di paralisi è massimo. Ma anche in questo caso, elementi, brandelli di sapere critico possono essere condivisi.

LA CRISI della rappresentanza ovviamente occupa un posto d’onore. Ma anche crisi delle forme di governance elaborate e messi in campo in questi anni com forme di governo mondiale. E dunque rapporto tra globale e locale, mentre le geografie dell’imperialismo vedono emergere nella scena mondiale paesi come l’India, la Cina, la Russia, il Brasile e il Sud Africa. Nei workshop ci sono inoltre appuntamenti dedicati al neomunicipalismo, alle tante forme di mutalismo autogestito, come obbligato campo di intervento politica da parte dei movimenti sociali variamente invitati a portare il loro contributo.

Un ampio carnet, quindi. L’interesse per questo di un giornale come «il manifesto» non è occasionale. Sono quaestuiones che nel fare un giornale politico hanno il sapore della contingenza e della cronaca quotidiana. Questo, per il momento, è il nostro contributo alla riuscita dell’appuntamento. Ci sarà tempo e luogo per verificare se la talpa del pensiero critico ha ben scavato.