Non posso evitare di dire qualcosa sulla parola più difficile, di questi tempi. Il manifesto ha annunciato con un ricco inserto le iniziative in campo politico, teorico e estetico che riempiono una settimana – contrassegnata dalla sigla C 17 – dedicata al secolo passato da quella che Gramsci definì una «rivoluzione contro il Capitale», alludendo non solo al sistema capitalistico, ma al libro di Marx, il quale tutto immaginava tranne che il proletariato tentasse l’ assalto al cielo in un paese arretrato come la Russia.

Mi limito dapprima a dichiarare la mia soddisfazione di poter scrivere liberamente, da un certo tempo ormai, su un giornale che si ostina a definirsi comunista. Sono grato a chi mi ospita per molti motivi personali e di stile, sui quali non indugio, ma particolarmente perché vivo questa esperienza come una piccola (piccola perché riguarda me) dimostrazione che non c’è contraddizione assoluta tra comunismo e libertà.

E lo dico ben conoscendo anche quanti dolorosi conflitti su divergenti opinioni politiche hanno accompagnato la storia del manifesto.

Ma considero la cosa importante poiché se da un lato non posso e non voglio allontanare da me una parola che ha accompagnato tanta parte della mia vita, dall’altro sono convinto che la ragione più forte e più grave del fallimento di ciò che comunismo intendeva significare stia proprio nella negazione della libertà che ha accompagnato – in pratica fin dall’ìnizio – l’esperienza sovietica e quasi tutto ciò che a quella esperienza si è informato.

I politici realisti potrebbero obiettare che violenza e tragedia hanno sempre accompagnato nella storia anche gli ideali politici, religiosi, filosofici più carichi di buone intenzioni e di speranza. E che l’antagonista del comunismo, il vittorioso capitalismo, è un sistema spietato che continua a produrre violenze sofferenze umane estreme.

Tutto vero. Ma tradire sul punto della libertà è insopportabile, inaccettabile, da parte di chi promette proprio una più vera, radicale e universale liberazione.

In fondo il capitalismo vince – credo – anche perché è più «sincero» nello scommettere sulle inclinazioni negative della specie umana. È un sistema che riesce a coniugare abbastanza bene, aggressività, competizione, egoismo, una certa diffusione di benessere materiale – pur nelle sempre più grandi, odiose, incredibili disuguaglianze – e persino una sensazione diffusa, per quanto in parte illusoria, di essere liberi.

Ho finito di leggere il romanzo di Julian Barnes Il rumore del tempo, una fantasia realistica sulla vita di Shostakovich. Amo molto la sua musica e ho sempre pensato al dramma di una vita conservata, per sé e per la sua famiglia, al prezzo di compromessi laceranti col potere stalinista. Una delle cose, ricordate nel libro, che mi ha colpito, è la circostanza che, dopo aver subito la dura reprimenda di Stalin in persona per la musica troppo «caotica» della sua opera Una Lady Macbeth nel distretto di Mcesk, Shostakovich ebbe un grande successo componendo la sua Quinta Sinfonia. Era l’anno terribile dello stalinismo, il 1937, e il significato di quella musica – come sanno i melomani – era molto controverso, in particolare l’ultimo movimento.

Una sorta di marcia trionfale della Rivoluzione, oppure un tragico corteo che della Rivoluzione evoca gli orrori?

Barnes mette in bocca ai burocrati di partito incaricati di giudicare l’opera una definizione (non so se storicamente vera), ma che merita di essere meditata: quella musica esprime una «tragedia ottimistica».