Arriva in Italia, grazie al cioccolato della cooperativa di commercio equo Quetzal, il cacao della Comunidad de Paz San José de Apartadó, sulle montagne del nord-ovest colombiano. Da oltre venti anni la Comunidad è un esempio di pace dal basso, malgrado i massacri dei quali è stata vittima. Una scelta etica e pratica. E il cacao come coltura di pace, contrapposto alla coca di guerra.
Scritto a mano su un cartellone nel verde tropicale della montagna colombiana, il manifesto della Comunidad de Paz San José de Apartadó riassume le scelte quotidiane di questo esperimento di pace dal basso che un gruppo di famiglie contadine porta avanti da oltre venti anni: «La Comunidad liberamente partecipa ai lavori comunitari, dice no all’impunità e alle ingiustizie, non prende parte alla guerra né direttamente né indirettamente, non porta armi, non dà informazioni a nessuno dei contendenti, rifiuta le colture illecite, non consuma liquori». E non dimentica: riconciliazione significa chiedere vera giustizia, non un pugno di dollari di rimborso.

CON LA FIRMA DEGLI ACCORDI DI PACE, due anni fa, la violenza in Colombia è certo molto diminuita ma non spenta. Nelle campagne, per i movimenti sociali, il pericolo è rappresentato dai paramilitari che non hanno mai voluto partecipare ad alcuna mediazione. Eppure, malgrado il pericolo e le minacce, i contadini abbarbicati su quelle montagne lussureggianti ma senza strade, «continuano ogni giorno non solo a denunciare i soprusi, ma anche a crescere i loro figli, produrre cibo e raccogliere i frutti del cacao», sottolinea Sara Ongaro della cooperativa equosolidale Quetzal di Modica, produttrice artigianale di cioccolato. Insieme ai Comitati italiani di solidarietà con la Colombia, Quetzal ha permesso alla comunità di ricostruire le semplici strutture necessarie alla prima trasformazione delle fave (erano state distrutte dalle incursioni), e poi attraverso Ctm Altromercato ha importato 3.500 kg di cacao, materia prima della barretta ChocoPaz, 70% cacao «coraggioso» e bio, con zucchero integrale dell’Ecuador.

IL CACAO BIOLOGICO DELLA COMUNIDAD – che nasce nella foresta e prima della collaborazione con Quetzal era venduto solo sul mercato colombiano e a una grande società internazionale di cosmetici biologici, Lush – fa parte della storia di questa peculiare comunità errante, originaria della zona costiera di Urabá, dove molti contadini erano associati nella cooperativa agricola Balsamar. La violenza delle multinazionali delle banane li cacciò da là e, dopo innumerevoli vicissitudini, abbandoni forzati delle terre, massacri e violenze, nel 1997, in piena guerra, racconta Sara Ongaro, «un gruppo di 170 famiglie decise di scegliere la neutralità, di non avere più niente a che fare né con l’esercito che li attaccava né con le Farc, la guerriglia, che diceva di difenderli provocando così rappresaglie e terrore. Dichiararono che avrebbero adottato i principi della difesa popolare nonviolenta per resistere nel conflitto e vivere in autonomia e pace. Negli anni hanno sovuto sopportare distruzioni e arresti e piangere molti morti. Ma senza nonviolenza probabilmente la repressione sarebbe stata ancora maggiore».

FANNO PARTE DELLA STRATEGIA DI DENUNCIA e trasparenza tipica della nonviolenza i bollettini che la Comunidad manda mensilmente a centinaia di organizzazioni colombiane e non, con la precisa registrazione di ogni atto di aggressione subito. Come questo: «Lo scorso dicembre, cinque paramilitari hanno fatto incursione nel laboratorio del cacao, ma per fortuna li abbiamo disarmati e anziché consegnarli all’apparato giudiziario locale e regionale, screditato e corrotto, siamo arrivati fino al viceministro». Da quasi dieci anni, volontari dell’organizzazione italiana Operazione Colomba fanno interposizione accompagnando i membri della Comunidad più esposti, sia al lavoro nei campi che negli spostamenti esterni.

I PRODOTTI AGRICOLI DELLA COMUNIDAD, frutto di questa resistenza collettiva, sono quasi tutti destinati all’autoconsumo e allo scambio inter-comunitario. È il cacao che, oltre a dare visibilità internazionale (una specie di protezione a distanza), garantisce le entrate che sostengono i progetti sociali, educativi, sanitari, autogestiti dalla stessa comunità dopo che le istituzioni hanno rifiutato di dare accesso alla scuola e al centro di salute. Insomma il cacao come banca di tutti; ma anche come una possibilità in più di rivendicare i propri diritti sulle terre coltivate. Il lavoro agricolo si fa in gruppo, sulle parcelle assegnate per lavorarle alle varie famiglie (il cacao per esempio), e su quelle rimaste comunitarie (soprattutto per il riso). Nel bel documentario Chocolate de Paz (che gli autori dedicano ai contadini che lavorano durante le guerre), i membri della Comunidad di San José de Apartadó spiegano che questo lavorare insieme è una necessità diventata virtù: sfollati dopo l’ennesimo massacro, capirono che quando uscivano erano facilmente attaccabili e la salvezza era spostarsi in gruppo. Le 170 famiglie sono organizzate in assemblea, che elegge un Consiglio, il quale coordina i gruppi di lavoro e i comitati (sportivo, educazione, salute, donne).

Per quanto piccola, una realtà così alternativa e resiliente è scomoda per i progetti minerari, agricoli, idroelettrici e politici: su quelle terre non deve abitare nessuno! E i paramilitari provvedono a ripulirle. Dopo gli accordi di pace stanno arrivando molti dollari per progetti contro la coca, coltura inestricabilmente legata alla guerra, eppure continua a espandersi a macchia d’olio, perché chi è pagato per estirparla la incoraggia.