Seguire il succedersi degli eventi nelle opere di Ivy Compton-Burnett non è semplice: com’è stato osservato dalla critica, il testo è costituito essenzialmente da dialoghi introdotti (quando introdotti) da un semplice ‘dice’, il più delle volte privo di soggetto. Scritti in un linguaggio theatrical, come afferma Linda Carter, che richiede tempi di lettura lenti e sollecita una concentrazione speciale da parte del lettore, i romanzi di Compton-Burnett inducono l’attenzione ai silenzi tanto quanto alle frasi pronunciate. Silenzi di non semplice decodificazione e che inducono via via a far luce sui retroscena.

Anche le relazioni tra i vari personaggi vengono fornite con parsimonia, e solo poco alla volta si hanno elementi sufficienti per individuare nomi, cognomi, gradi di parentela o di relazione. Lo si vede bene leggendo i romanzi in successione: dopo Più donne che uomini, Fazi pubblica la prima versione italiana di A House and Its Head, con il titolo Il capofamiglia (traduzione di Manuela Francescon, pp. 351, € 19,00): Ivy Compton-Burnett lo fece uscire nel 1935 e lo avrebbe poi indicato sempre come il suo preferito.

Allusioni a cose fatte
Nessuna delle aspettative nutrite dai devoti dell’autrice viene delusa dal Capofamiglia, a cominciare dalla rappresentazione dello spazio domestico come luogo nel quale gli individui vivono in posizione del tutto subalterna rispetto al padre, il quale esercita la propria tirannia con rigore e imperturbabilità sconcertanti. È lui che sancisce le regole e stabilisce come tutti gli altri debbano parlare e vivere. Le prime pagine danno subito conto del processo intentato da Duncan Edgeworth, il capofamiglia burbero e impaziente, dal nome quanto mai shakespeariano, ai danni dei familiari, che vedono passata al setaccio ogni frase e ogni piccolo gesto nella mattina di Natale.

Inesorabilmente l’uomo si accanisce nel censurare per assolute banalità la moglie Ellen, le due figlie Nance e Sybil e il nipote Grant. Un minimo ritardo nello scendere a colazione, una domanda innocente o una semplice osservazione vengono ripresi o irrisi e il loro autore messo a tacere senza diritto di replica.

Com’è sua consuetudine, Ivy Compton-Burnett mette in scena situazioni che rispecchiano in buona parte quanto da lei stessa vissuto nell’infanzia e nella giovinezza, con madri che muoiono precocemente, nuove spose impalmate, intrighi per eredità contese. Ellen si consuma e muore nella totale indifferenza del marito e i figli assistono allibiti al nuovo precoce matrimonio del padre con una giovane donna (l’autrice stessa era figlia di secondo letto del padre), cui per una serie di eventi seguirà una terza moglie. Accanto e sotto queste successioni, scorrono le storie dei ragazzi e degli altri personaggi, parenti e vicini, le cui presenze si intrecciano a quelle dei familiari della casa.
Grazie ai dialoghi, ognuno viene sottoposto a una sorta di radiografia che fornisce referti validi solo nel rivelare l’immagine delle reciproche relazioni, dunque non riferita agli organi interni ma agli spazi che dividono ciascun personaggio dagli altri e alle reciproche relazioni che in quegli spazi vengono costruiti. Ciò che giace nella loro mente non è oggetto d’indagine né è lasciato intuire, se non quando è ormai troppo tardi.

Come le emozioni e i sentimenti, restano acquattati nell’ombra anche i fatti veri e propri (compreso un delitto), la cui rappresentazione non rientra minimamente negli interessi dell’autrice, per la quale è un punto d’onore sottacerli o al più alludervi a cose fatte. Gli eventi più terribili e decisivi avvengono fuori scena, come nella tragedia greca (effettivamente molto amata dall’autrice), e la narrativa procede trionfalmente per omissioni ed ellissi. Se ne possono cogliere frammenti dalle conversazioni sempre molto tese che si tengono nel salotto, intorno alla tavola o al tavolino dove viene servito l’immancabile tè. Le parole anche quando paiono fatue risultano, di fatto, caricate di un peso gravosissimo. Al rituale del tè le frasi di circostanza (offerta di latte, burro, marmellata) volano come lame e sedersi con i familiari comporta ogni volta l’esposizione a un rischio: gli spazi domestici sono campi di battaglia, dove ciascuno combatte senza esclusione di colpi. In gioco c’è il proprio ruolo all’interno di una piramide gerarchica nella quale le posizioni conquistate vanno difese giorno per giorno e possono essere messe in crisi o favorite da eventi imprevedibili, come la morte di un altro membro, un matrimonio o la nascita di un bambino.

Alla casa il posto d’onore
L’autrice compie dunque una traslazione decisiva dalle teorie darwiniste (cui dedicò grande attenzione) all’interno degli spazi che dovrebbero per statuto garantire accoglienza e protezione agli individui rispetto alla ferocia della natura: famiglia e comunità sociale sono ambienti nei quali si scatenano pulsioni alla sopraffazione. I rapporti familiari hanno a fondamento la conquista del potere, delle rendite, della casa, al punto che la stessa morte altro non è se non un lasciare il proprio spazio e i propri beni agli eredi: «Come sarebbe tutto più difficile, se la gente non morisse!».

In un racconto sempre cifrato, che si coglie solo tra le righe, vengono inseriti riferimenti a testi canonici che confermano la complessità di un romanzo ricco di risonanze. A un certo punto, uno dei personaggi, dovendo annunciare insieme una morte e il recupero dell’onore degli Edgeworth, esordisce con questa frase di sapore shakespeariano: «Vengo a voi con animo diviso … Non so decidermi tra la gioia e la tristezza», un’eco del passo (Amleto) nel quale l’usurpatore con un lato piange la morte del fratello dall’altro annuncia lieto le nozze con la regina. Insomma dietro le buone maniere, i sorrisi e i biscottini, spuntano immancabilmente trame e delitti, finché – come nei romanzi della contemporanea Agatha Christie – un crimine sarà perpetrato.

A conquistarsi il posto d’onore definitivo all’interno della storia è proprio la casa, cui il titolo del resto allude esplicitamente, che assume pagina dopo pagina un corpo sempre più solido. Le stanze, l’arredamento, gli oggetti sono i testimoni silenziosi e immobili di vicende che si susseguono anche in modo sorprendente, ma che non intaccano la potenza primordiale di un’entità indifferente e irrelata.

Sentimenti fuori luogo
Non a caso Mario Praz, dedicando alla casa la sua opera più celebre, ha richiamato senza esitazione i lettori italiani sull’opera di Ivy Compton-Burnett. Il comportamento anaffettivo e tranchant di Duncan, la sua artica indifferenza nei confronti degli esseri umani, diventa dunque l’esecuzione di un ruolo tragico prestabilito e interpretato tanto meccanicamente da capovolgersi, a volte, in sinistra comicità.

Essere capofamiglia vuol dire mantenere intatta la potenza di quel luogo che, come la natura, è gelido e muto. E per svolgere questo compito non c’è alcuna necessità di ricorrere ai sentimenti né alle emozioni, rimarchevoli debolezze di coloro che non sanno stare al proprio posto.