Il Far East Film Festival è un contenitore elastico con una proposta diversificata per un pubblico (sempre numerosissimo) che va dai nostalgici di Bruce Lee, agli amanti della fantascienza e dell’horror, ai dark action film, ma anche a chi vuole scoprire panorami esotici e situazioni socio-politiche di cui spesso non siamo aggiornati. A questo tipo appartiene l’attesissimo Ten Years, un film militante hongkongese composto da 5 corti che raccontano, con pessimismo disperato, la città tra dieci anni. Quando il film, che in patria ha incassato dieci volte il suo budget, ha ricevuto la nomination agli Hong Kong Film Awards, la tv cinese non a caso ha cancellato la trasmissione della premiazione. I diversi episodi affrontano le difficili prospettive dell’ex protettorato britannico attraverso generi differenti: dal thriller politico complottistico in cui finanza, politica e media si alleano e utilizzano le triadi criminali per mettere in scena un attacco terroristico durante il Labor Day, che consenta l’approvazione di una severa legge di Sicurezza Nazionale contro il pericolo di «infiltrazioni straniere»; a un corto futuristico distopico in una città deserta e notturna dove una coppia che si dedica a restaurare i reperti di una civiltà che sta scomparendo – simboleggiata dai piatti del servizio buono- optano per un trattamento taxodermico per trasformarsi essi stessi in reperti; un episodio neorealistico racconta le traversie di un tassista che conosce solo la lingua cantonese di Hong Kong e viene escluso dal lavoro perché non apprende la nuova lingua imposta dal regime.

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L’episodio più forte è sicuramente il quarto che ricostruisce cronologia e contenuti degli accordi cino-britannici del 1984, la firma del trattato nel 1997, che concedeva alla città una relativa autonomia tranne che in materia di relazioni internazionali e la garanzia che nel 2047 il trattato verrà ridiscusso. Ma tra dieci anni, nel 2025, invece, studenti e lavoratori discutono della necessità di un martire che si immoli per l’indipendenza di Hong Kong, come nella rivoluzione dei gelsomini, in un finto doc che contiene interviste di esperti e una fiction che riguarda una ragazza pakistana (a evocare la diversità razziale e culturale della città) il cui compagno intende immolarsi per attirare l’attenzione della Gran Bretagna e richiamarla al suo dovere di far rispettare gli accordi; alla fine una vecchietta, una cinese ex combattente, si dà fuoco, assieme al suo ombrello, a rammentare il movimento degli ombrelli del 2014. L’ultimo episodio affronta una questione in prospettiva non secondaria: la chiusura dell’ultima fattoria locale di produzione avicola, in quanto «locale» è diventato nel frattempo un termine, quindi un concetto, proibito: a far rispettare queste regole sono chiamati degli inquietanti Giovani Guardiani, che richiamano le guardie rosse maoiste, ma il film si chiude nel segno della speranza perché il figlio del venditore di uova in realtà lavora con la «resistenza».

Anche Inside Man, buon thriller coreano di impianto classico, denuncia la collusione tra politica, economia e comunicazione, affidando il ruolo del burattinaio al direttore di un grande giornale che accusa i sindacati di essere infiltrati dai nordcoreani, ed è in grado di assorbire le scomode verità che un giovane procuratore riesce a denunciare, infangando chiunque attacchi il sistema corrotto; alleatosi con uno scaltro gangster il giovane, un ex poliziotto che non avendo buoni «contatti» non può fare carriera, smaschera il complotto, ma si dedica poi alla più modesta professione di avvocato, per chiamarsi fuori da un sistema incorreggibile.

Un altro film di Hong Kong, The Mobfathers di Herman Yau, racconta le lotte intestine tra le triadi in parallelo alle tensioni politiche, costruendo la figura di un simpatico antieroe criminale, all’interno delle convenzioni del genere, inclusa una dose massiccia di sesso e violenza (per cui non verrà distribuito in Cina).

Il documentario The Cambodian Space Project descrive le attività del gruppo musicale omonimo, ricostruendo le vicende del pop cambogiano dei ’60, represso dai Khmer rossi che uccisero brutalmente la sua star più popolare, Pen Ran, le cui canzoni vengono interpretate dalla cantante del gruppo, Srey Thy. Attraverso materiali d’epoca, dai film ai coloratissimi poster e alle copertine di dischi della fase «buona» del principe Sihanuk, fattosi regista e produttore discografico, alle inquietanti immagini dei contadini intruppati da Pol Pot, il film rievoca il dramma di un regime che ha sterminato 9 artisti su 10, oltre a milioni di contadini, ma attraverso la figura della battagliera Srey Thy, mette in crisi il Codice di Condotta Femminile, per proporre un’artista al confine tra pop e blues, con una voce graffiante e una vita drammatica alle spalle, inclusi amori difficili.

La retrospettiva «Oltre Godzilla» include un omaggio alla fantascienza peculiare, della psiche piuttosto che dei mostri, di Obayashi Nobuhiko, cui è andato il Gelso d’oro alla carriera 2016, proponendo The Girl Who Leapt Through Time e Exchange Students, che giocano sul teletrasporto temporale e surreali scambi di identità sessuale per investigare i complessi sentimenti dell’adolescenza con un umorismo davvero originale, già rivelato dal suo film più noto, House (1977) una spumeggiante commedia horror dai colori sgargianti – alla Mago di Oz, cui fa esplicito riferimento.

In programma anche una serie di film le cui sceneggiature non passerebbero la prima lettura di un corso per principianti e che diventano invece, per un mistero creativo che andrebbe studiato, dei film originali, come The Kodai Family (una cenerentola incontra un principe azzurro telepatico, interpretato dal fascinoso attore e modello nipponico dagli occhi azzurri Saitoh Takumi, star del festival) o Nime-Anole, così violento da causare un malore in sala.