L’ultimo libro di Daniele Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo (Mimesis, 2018), è un libro da avere, leggere e discutere per la ricchezza delle sue argomentazioni. Forse non tutto persuade totalmente, ma c’è tanta e buona carne al fuoco.

Cominciamo subito da uno dei due temi centrali nel volume, ovvero: la definizione di cinema del reale. Si tratta di una formula che oggi è abusatissima e che lo studioso, nel suo discorso, prova a spiegare in modo analitico, attingendo principalmente al pensiero di Alain Badiou. Ora, l’operazione funziona sul piano intellettuale – anche perché Dottorini è un fine lettore del filosofo francese – ma qua e là lascia spazi a possibili ambiguità nell’applicazione. Per esempio: certe volte la dicitura cinema del reale risulta essere mero sinonimo di cinema documentario. Ci sono invece altre occasioni in cui l’autore marca una distinzione tra i termini che meriterebbe ulteriore approfondimento. Inoltre, per come è articolata, l’idea di reale in Badiou dovrebbe investire tutto il cinema, comportando la necessità di un ripensamento generale di un certo discorso sull’audiovisivo come linguaggio. Un qualcosa che però non sembra apparire fra le priorità dell’autore.

Detto questo, è sicuramente possibile trovare una ammirevole sottigliezza di pensiero nell’altro tema centrale dello studio, riconducibile al doppio legame realismo-creazione nel campo filmico (è ciò a cui alluderebbe il sottotitolo la creazione del mondo). Al riguardo, si può per esempio menzionare la riflessione sul paesaggio presente nel secondo capitolo, una questione centrale per approfondire la relazione figura-spazio. Qui Dottorini individua quattro pensieri-tradizioni principali da prendere in esame come possibili paradigmi. I primi tre sembrano rappresentare tendenze maggiori e sono di diretta derivazione filosofica: «In particolare si tratta di rileggere, in un certo senso da una prospettiva cinematografica, alcune delle più potenti riflessioni filosofiche sul paesaggio, come la concezione dell’abitare heideggeriana, il “movimento di mondo” deleuziano e il riconoscimento del paesaggio come Inappropriabile nella riflessione teorica di Agamben.» Invece, per quanto riguarda il quarto pensiero, la scelta dell’autore cade sul Fûkeiron, la teoria estetica e politica del paesaggio che venne concepita dallo sceneggiatore, regista e militante giapponese, Adachi Masao. Complessivamente, si tratta di quattro opzioni che Dottorini collega a determinate esperienze – le prime tre sono evocate con l’analisi della produzione del Sensory Ethnographic Lab dell’Università di Harvard (SEL); l’ultima, col film Anabasis (Eric Baudelaire, 2011) – e che sembrano fornire tutte le varianti pensabili della relazione figura-spazio: quella ontologica con Heidegger; quella immanentista con Deleuze; quella negativa con Agamben; quella politica con Adachi. In tutto questo, si deve anche menzionare la brillantezza di alcune suggestioni (come quella che fa l’autore quando lega una certa lettura del piano sequenza con il pensiero dell’inappropriabilità di Agamben).

In definitiva, La passione del reale è un lavoro che va letto, e va letto per il suo valore autenticamente accademico. Cioè quel quid che – val la pena ricordare – è in grado di portare alla luce modelli e generare discussioni. Quindi, qualcosa la cui funzione formatrice co-esiste con quella critica.