Non tutto, a questo mondo, si può tradurre, anche se bisogna provarci sempre e comunque per «dare almeno l’idea» di un’opera altrimenti irraggiungibile, come sosteneva il poeta (e ottimo traduttore) Ted Hughes. Ecco perché Canción de tumba del messicano Juliàn Herbert, apparso nel 2011 presso Random House- Mondadori ha dovuto cambiare titolo man mano che il libro veniva tradotto in altri paesi: è quasi impossibile, infatti, suggerire in altre lingue diverse dallo spagnolo il rapporto tra la canción de cuna, che le madri cantano ai bambini per adormentarli, e la funebre ninna-nanna elaborata da Herbert accanto al letto della madre moribonda. Nell’edizione italiana Canción de tumba è diventato dunque Ballata per mia madre (Gran Vía, traduzione di Maria Cristina Secci, pp. 218, euro 14,50): l’adattamento, davvero inevitabile, cancella purtroppo una immagine capace di fare da perfetta «porta di ingresso» a un grande romanzo destinato a dare nuovo senso alla cosiddetta autoficciòn, della quale la recente letteratura latinoamericana fa largo uso, con esiti a volte notevoli: per esempio nei casi di Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia di Patricio Pron (Guanda 2013) o del prodigioso El desbarrancador di Fernando Vallejo, ma più spesso irrilevanti e con sostanziose derive autoreferenziali, come nel Corpo in cui sono nata di Guadalupe Nettel (Einaudi 2014).

Sotto qualunque titolo viaggi, però, Ballata per mia madre si impone al lettore di qualunque paese come un testo fuori del comune: non solo per la storia che racconta – quella di un figlio che, vegliando e accudendo il corpo disfatto della madre malata di leucemia, ripercorre la propria vita e quella di lei, donna intrepida e iraconda – ma anche e soprattutto per la lingua magnifica in cui la racconta, sostenuta da una struttura ambiziosa e complessa, fatta di frammenti che possiedono la naturalezza del discorso orale: una sorta di caos sofisticatissimo, in realtà costruito e rifinito con grande cura da una mano abile e appassionata.

Mentre ricapitola infanzia e adolescenza vissute tra bordelli, baracche, tentativi di violenza, tate atroci che sembrano la versione messicana delle megere dickensiane uomini che vanno e vengono, fratelli e sorelle di padri diversi, e infine tutte le incarnazioni di Guadalupe Chavez, figura materna sospesa tra rabbia, incuria, menzogna e amore appassionato, Herbert non smette di interrogarsi sulla forma in cui va calata la storia di sua madre, e fa della malattia e della morte un filo conduttore per indagare non solo le radici di un dolore antico, ma anche le ragioni e il senso del narrare, consentendoci in qualche modo di assistere e partecipare al «farsi» del romanzo. Che, forse, proprio un romanzo non è, ma – come voleva Roberto Arlt – di certo è un formidabile pugno alla mascella del lettore, travolto dall’espressione di una sofferenza che disintegra sul nascere qualsiasi tentazione melodrammatica, attinge a un umorismo acido e desolato e attraversa impavidamente più di un genere letterario, rifacendosi all’autobiografia come alla «scrittura del lutto» (da Cohen a Auster a Barnes a Jamaica Kincaid a Barthes), sovvertendo tutto ciò brillantemente, mentre un esplicito discorso sulle strategie letterarie e sul mestiere di scrittore corre parallelo alla narrazione.

In Ballata per mia madre, singolare e crudele Bildsungsroman messicano, Herbert finisce così per disegnare un cerchio che, partendo dalla sofferenza e dalla memoria, approda alla riconciliazione con la figura-cardine della madre, e con la propria identità di figlio e di padre: dopo due paternità malvissute e segnate da abbandoni e fughe, Herbert e la sua compagna hanno un altro bambino proprio mentre Guadalupe muore, e la canción de tumba ridiventa canción de cuna, soundtrack di una maturità piena di ferite ma finalmente accolta e riconosciuta.

Alle vicende materne, a una infanzia da sopravvissuto, alla malattia e alla morte, alla riflessione sul rapporto tra realtà, memoria e letteratura, al perfetto amalgama tra realtà e finzione, si intreccia però un’altra costante, ovvero la narrazione di un Messico di cui il corpo in disfacimento di Guadalupe sembra l’incarnazione e il simbolo. Chiuso in una stanza di ospedale, seduto accanto al letto da cui vengono gemiti e odori e lievi movimenti che testimoniano l’atroce impotenza della madre, l’accanimento inutile della medicina, la perdita di ogni dignità, Herbert scrive la morte e la memoria senza tagliare fuori la realtà collettiva, anche se sfugge felicemente a quell’estetica della violenza che oggi ha colonizzato tanta parte della letteratura messicana e che rischia l’omologazione e l’approdo a un facile consumo.

Herbert, che è nato nel 1971 e vive nel nord del paese, in una piccola città dello stato di Guerrero, teatro di un recente massacro senza risposte – è perfettamente consapevole della violenza e della corruzione di cui è imbevuta, e non da oggi, la vita quotidiana del suo paese, e le lascia costantemente filtrare in ogni piega del suo romanzo: sono l’aria che lui e i suoi personaggi respirano, sono la storia della sua famiglia (il patrigno di Guadalupe ha fatto parte del movimiento ferrocarilero degli anni ’50, ferocemente represso, cui Herbert dedica un magnifico episodio del romanzo), che hanno modellato la sua vita e i suoi ricordi attraverso ingiustizie profonde, miseria assoluta, echi di attentati e assassinii politici.

Le contraddizioni, il cinismo, l’ipocrisia, le complicità che caratterizzano la vita pubblica e privata della Suave Patria, sulla quale Herbert amaramente ironizza, impongono alla scrittore una visione politica del mondo che però non si traduce in letteratura militante o testimoniale, ne evita le rigidizze e privilegia un discorso indiretto e diffuso, efficacissimo nel prendere di mira la retorica del potere e dei suoi discorsi ufficiali, le ingiustizie sociali, le surreali follie di una lenta, insensata burocrazia.

Non si può, infine, ignorare quello che è un elemento fondante dell’opera di Herbert, ovvero una lingua ricchissima, fitta di immagini vertiginosamente e crudelmente poetiche, di neologismi, di contaminazioni tra cultura alta e popolare, tra slang locale e spagnolo colto, tra citazioni letterarie e musicali (lo scrittore, tra l’altro, è anche leader e cantante solista di una band chiamata Madrastras, ossia «Matrigne»): una lingua-spugna, pronta ad assorbire le cose più diverse, ma anche una lingua-puzzle, composta di innumerevoli pezzi solo in apparenza eterogenei, e infine una lingua volutamente «impura», «sporca» eppure squisita, dotata di un ritmo inconfondibile. E questo ci ricorda che Herbert, autore di due romanzi e di bellissimi racconti (l’antologia Cocaína. Manual de usuario, uscita in Messico nel 2007, meriterebbe davvero la traduzione), nonché critico acuto e anticoformista, è innanzitutto un poeta, anzi uno dei migliori e più innovativi poeti messicani di oggi, con una dozzina di titoli al suo attivo e un forte interesse per la videopoesia, sulla quale lavora da anni. Ed è anche per questo che, a tratti, Ballata per mia madre sfiora la prosa poetica, possiede – almeno in lingua originale – una musicalità inconfondibile e audace, e ci offre inesauribili possibilità di lettura, ponendoci al tempo stesso, come è compito della letteratura, infinite domande.