L’ultimo scandalo è scoppiato solo pochi giorni fa, in occasione della Giornata della memoria. Il governo ultraconservatore di Viktor Orbán è stato accusato da una trentina di studiosi di «falsificare la Storia».

All’origine della polemica, le dichiarazioni di Sandor Szakaly, il direttore di Veritas, l’istituto storico creato da Orbán per sviluppare una «nuova visione della nazione magiara». Szakaly, noto per le sue idee di estrema destra, ha liquidato come «operazioni di polizia contro degli stranieri», la deportazione da parte degli ungheresi di più di 18mila ebrei verso una zona della Russia occupata nel 1941 dai nazisti. Consegnati alle Ss, furono tutti assassinati. Eppure, «non c’era stata alcuna richiesta da parte dei tedeschi. Si trattò di una decisione di Budapest», sottolinea lo storico László Karsai.

Ma è proprio questo il punto. Non potendo negare lo sterminio – oltre 500mila ebrei e più di diecimila rom non fecero ritorno a casa dopo il 1945 -, la destra ungherese cerca di attribuirne ogni responsabilità ai tedeschi. Fingendo di dimenticare che fu il regime fascista guidato tra il 1920 e il 1944 dall’ammiraglio Miklós Horthy a portare il paese in guerra a fianco di Hitler e Mussolini e che furono gli zelanti gendarmi magiari a consegnare ebrei e rom ai nazisti.

Questo perché, per l’esecutivo di centrodestra del Fidesz, il partito membro del Ppe che sotto la guida di Orbán è tornato al potere nel 2010 con oltre il 52% dei consensi, la battaglia per la «riconquista» della Storia nazionale è decisiva. Negli ultimi tre anni, il revisionismo storico e la vulgata secondo cui gli ungheresi sarebbero stati ostaggio di due occupazioni militari «straniere» (prima i nazisti e poi comunisti), oggi celebrata nei musei di Budapest, hanno fatto da sfondo a una deriva sempre più autoritaria. Il ritorno dell’«orgoglio nazionale» ha coinciso con il nazionalismo economico agitato contro la Ue – fino a un recente accordo con Putin -, e con un durissimo attacco nei confronti dei diritti civili, sancito anche da un revisione di stampo «patriottico» e illiberale della Costituzione.

In un mix di nazionalismo, repressione del dissenso e campagne xenofobe contro i rom, l’Ungheria di Orbán si è trasformata nel laboratorio più brutale della nuova destra europea. Dove, all’ombra del potere, le bande razziste e neonaziste hanno potuto agire pressoché indisturbate. Solo pochi mesi fa, un tribunale di Budapest ha condannato all’ergastolo quattro nazi-skin responsabili dell’assassinio di sei rom, tra loro anche un bambino di 5 anni, avvenuto tra il 2008 e il 2009 nel nordest del paese.

In questo clima, il movimento Jobbik, razzista e antisemita, sostenitore di un ritorno a una «grande Ungheria» che recuperi i territori perduti con il Trattato del Trianon del 1920, nostalgico delle Croci frecciate che collaborarono con i nazisti, e del turanismo, un’ideologia anti-occidentale oggi declinata in chiave filo-iraniana, ha raccolto oltre il 16% dei consensi, pari a circa 850mila voti, eleggendo ben 47 parlamentari. Il tutto, dando soprattutto voce – e corpo con le ronde armate della Guardia Magiara -, alla xenofobia cresciuta contro i rom che rappresentano circa il 7% della popolazione ungherese.

Pur condividendo per molti aspetti la stessa politica, al punto di risultare alleati nei fatti, o forse proprio per questo, Jobbik e il Fidesz hanno così finito per diventare anche concorrenti. Ed è questa la sfida, giocata tutta a destra – la sinistra appare sconfitta in partenza -, che costituisce uno dei maggiori elementi d’interesse delle elezioni politiche che si svolgeranno nel paese il 6 aprile, a un mese dalle europee.

Orbán gode di una larga maggioranza, ma, secondo tutti gli analisti, per evitare sorprese, specie in vista di una forte astensione, sta puntando a recuperare i consensi andati in passato all’estrema destra. Nel frattempo, anche Jobbik cerca di pescare nell’elettorato conservatore, in particolare quello giovanile, attraverso un cambio di strategia. Messe da parte le uniformi anni Trenta della Guardia Magiara, il partito razzista cerca infatti di presentarsi come una moderna forza nazionalista.

Da alcune settimane, sia in tv che in rete, sono apparsi dei video che sintetizzano questa svolta. Giovani «normali» e sorridenti, che portano a spasso il cane in un parco o attraversano la strada in bicicletta, invitano dagli schermi a votare per l’estrema destra, «per dare un futuro all’Ungheria e per far crescere i nostri figli in un paese sicuro». Il target dei video è chiaro: «Già oggi siamo il partito più popolare tra i giovani – spiega sulla sua pagina Facebook il leader di Jobbik Gábor Vona, 36 anni, prima di aggiungere -, il futuro è in marcia, nessuno potrà fermarlo». Nel 2010, lo stesso Vona aveva prestato il suo volto a una campagna di ben altro tono, tutta incentrata sul pericolo di quella che Jobbik ha ribattezzato con un minaccioso neologismo come la «zingaro-criminalità». «Noi lavoriamo, loro rubano», ammonivano allora gli spot dei neofascisti.

I sondaggi più recenti indicano che alla fine Orbán dovrebbe riuscire a sottrarre voti a Jobbik, oggi accreditato sotto al 10%, anche se, specie per quanto riguarda i giovani che votano per la prima volta, spiegano i ricercatori, è sempre molto difficile fare delle previsioni. Così, a scanso di equivoci, sottolinea Péter Krekó, del think-tank magiaro Political Capital, «il Fidesz ha già fatto sua una parte consistente della retorica della destra radicale in materia di euroscetticismo, di critica nazionalista al capitalismo, di denuncia della colonizzazione del paese da parte degli stranieri». E per il prossimo 19 marzo, anniversario dell’inizio delle deportazioni di massa di ebrei e rom nel 1944, Orbán annuncia l’inaugurazione di un nuovo monumento in Piazza della Libertà a Budapest, per ribadire la responsabilità dei soli tedeschi nello sterminio. Secondo lo storico Krisztian Ungvary, «l’ennesimo segnale lanciato all’elettorato di estrema destra che Orbán vuole sedurre».