Risorse naturali (gas, petrolio, minerali, legname), trasporti e logistica, tasse aeroportuali, telecomunicazioni garantirebbero alla giunta oltre due miliardi di dollari l’anno. Il doppio, aggiungendo anche turismo, tessile e calzaturiero cui si somma un altro miliardo di dollari, al momento congelato dalla Federal Reserve Usa dopo il golpe: due terzi dello stock di valuta estera dell’intero Myanmar.

Sarebbe questo, secondo economisti locali riunitisi anonimamente sotto la sigla Independent Economists for Myanmar (Iem), ha reso noto il magazine birmano Irrawaddy, l’unica «ancora di salvezza finanziaria» della giunta tenuta in vita proprio dai profitti in valuta che possono garantire il flusso di cassa del regime con un forziere vitale per pagare stipendi e consentire le importazioni fondamentali.

Parliamo di circa 28 miliardi di dollari l’anno di beni e servizi essenziali: carburante, farmaci, olio da cucina, carne e verdure. A farla da padrone, in questo flusso di cassa in preziosa ed essenziale valuta estera, è ovviamente il settore energetico.

In campo, per lo sfruttamento di questi giacimenti ora in mano al regime, ci sono tutti i principali player mondiali. A mettere le proprie trivelle la francese Total, la statunitense Chevron, la sudcoreana Posco, la thailandese Ptt, la malaysiana Petronas, la cinese Cnpc e l’italiana Eni, che si è aggiudicata nel 2013 due licenze esplorative.

Contratti firmati con il governo birmano l’anno successivo, di cui Eni detiene il 90%, attraverso la sua apposita filiale Eni Myanmar (in mano alla giunta militare il restante 10% tramite la Burmese Myanmar Production e Exploration Company Ltd). I potenziali giacimenti sulla terraferma sono due. Il primo, quello di Salin grande 1.292 km², si trova a circa 500 km dalla capitale Yangon, in direzione nord. Il secondo, Pegu Yoma-Sittaung, nella zona centrale (6.558 km²).

A questi si aggiungono poi altri due giacimenti in mare, nella parte meridionale del Golfo del Bengala (bacini del Rakhine e del Moattama Sud Andamane). In questo caso il nostro colosso energetico statale si è spartito l’80% assieme alla filiale birmana dei francesi di Total (40% a testa), lasciando il restante 20% ai vietnamiti di Petrovietnam Exploration Production Corporation Limited. Eni però all’indomani del golpe ha subito precisato di «non avere attività operative sul campo, né presenza di personale espatriato nel Paese».

La Total, invece, ha un problema. Le Monde ha rivelato, in un’inchiesta di Nabil Wakim e Julien Bouissou, come centinaia di milioni di dollari di royalty verrebbero dirottate ai militari della giunta attraverso una società registrata alle Bermuda, a scapito dello Stato birmano. Solo nel 2019, Total avrebbe versato 257 milioni di dollari. Carte e documenti ritenuti «imbarazzanti» a tal punto da far ritirare, a quanto scrive France Presse, persino una campagna pubblicitaria Total già programmata proprio sul sito internet della testata d’Oltralpe.

Nel frattempo, sui rapporti Francia-Myanmar, si sono messi al lavoro persino gli studenti di una scuola di giornalismo di Lille. A guidarli, Bernard Nicolas, giornalista d’inchiesta francese di lungo corso e documentarista. Il loro sarà un servizio tv sugli affari che legano la Francia di Macron ai golpisti birmani. I ricavi di gas e petrolio hanno già garantito al Myanmar 1,5 miliardi di dollari nel periodo 2019-20, circa l’80% proprio dal settore offshore, secondo i dati ufficiali diffusi dalla stampa locale.

Tanto che negli Stati Uniti, il Senato chiede al neo presidente Usa, Joe Biden, di imporre nuove sanzioni. Interrompere il flusso di cassa in valuta straniera avrebbe effetti immediati sui militari piuttosto che sui civili. Ecco perché Justice for Myanmar (Jfm) ha chiesto a Total di «sospendere immediatamente tutti i pagamenti alla giunta militare e di depositare i fondi in un conto protetto, fino al ripristino della democrazia in Myanmar».

Secondo Irrawaddy, la valuta estera in Myanmar starebbe già iniziando a scarseggiare, visto il deprezzamento del 20% del kyat rispetto al dollaro Usa avvenuto tra il 1° febbraio e il 19 aprile. Il tutto nonostante i limiti ai prelievi di kyat e l’accumulo di denaro contante. Ecco perché secondo la testata degli esuli, chiudere i rubinetti della valuta estera potrebbe spingere i militari a scendere a compromessi.