Erano otto pagine all’interno de il manifesto, un inserto settimanale dal titolo un po’ ammiccante, Gambero Rosso, preso in prestito dall’osteria inventata da Carlo Lorenzini in Pinocchio.

Il primo numero, diretto da Stefano Bonilli, uscì il 16 dicembre 1986. Tra i collaboratori c’era anche Carlo Petrini, da Bra, leader politico e animatore culturale dell’Arci: aveva fondato l’Arcigola, sezione di «militanti» dediti alla critica gastronomica e alla ricerca del piacere del cibo.

Il loro ragionamento, rivoluzionario per quell’epoca di edonismo reaganiano post-sessantottino, era semplice: perché i compagni devono mangiare male? Chi ha detto che a sinistra, tra le costine bruciacchiate delle feste dell’Unità e il vino di bassa qualità delle osterie cantate da Guccini, è vietato ricercare il piacere nel gustare le specialità migliori? Perché lasciare la gastronomia ai notai e agli avvocati ricchi dell’Accademia Italiana della Cucina?

Da quei concetti nacque un neologismo che ha cambiato per sempre il linguaggio del cibo: «Slow-food», scritto allora con il trattino.

Tutto ebbe inizio trent’anni fa, per reazione all’apertura «blasfema» di un fast food McDonald’s in pieno centro di Roma, a piazza di Spagna. A quel tempo il gruppo dell’Arcigola braidese si riuniva in un’osteria delle Langhe, l’Unione di Treiso (c’è ancora) e durante una di quelle cene, tra tajarin e buon Barolo, Folco Portinari, allora regista Rai, critico e poeta raffinato, ebbe l’intuizione giusta.

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Nel libro Slow Food. Storia di un’utopia possibile (Giunti-Slow Food Editore) – che ho scritto con Carlo Petrini per ricostruire la biografia del movimento fino ai giorni nostri – Portinari così racconta: «Alcuni locali storici d’Italia, anche a Firenze, si erano trasformati in fast food. A forza di sentirne parlare, ci venne l’idea di cercare di arginare questa calata dei barbari con lo slow food: la intendemmo come una trincea difensiva. Carlin mi chiese di provare a stilare un manifesto con la nostra filosofia. Cercai di spiegare che dietro al fast food c’era una nuova cultura e una nuova civiltà con un unico valore: il profitto. Il piacere è del tutto incompatibile con la produttività, in quanto il tempo che viene speso per la sua ricerca viene tolto alla produzione: anche fare all’amore è un’attività «inutile» e peccaminosa».

«Mi misi all’opera – prosegue -, pur sapendo che in realtà il vero manifesto contro il fast food era già stato realizzato da Charlie Chaplin nel suo film Tempi moderni. Volevamo recuperare il valore del corpo e del piacere. Ebbi la ventura di trovare l’espressione fast life, poiché il tempio in cui se ne celebravano i riti era il fast food. Il sottotitolo che trovai a quel manifesto era “Movimento Internazionale per la Tutela e il Diritto al Piacere”. Il retroterra culturale veniva dalla mia esperienza nella rivista La Gola, che allora trattava di cultura materiale, quando nessuno lo faceva, con tanti intellettuali provenienti da Alfabeta e dal Gruppo 63 di Nanni Balestrini».

Portinari scrisse il testo, Petrini raccolse le adesioni e il 3 novembre 1987 comparve «Una proposta rivolta a tutti coloro che voglio vivere meglio: Slow-food», pubblicata sulla prima pagina del Gambero Rosso (anno II numero 11, supplemento mensile di questo giornale) con una bella chiocciola stilizzata sotto.

Dopo le firme di Portinari, Petrini, Bonilli e Valentino Parlato – allora direttore – seguivano quelle di politici come Gerardo Chiaromonte (esponente del Pci), di intellettuali e di artisti di fama, come Dario Fo, Francesco Guccini, Gina Lagorio, Enrico Menduni, Antonio Porta, Ermete Realacci, Gianni Sassi, Sergio Staino e altri.

Quell’appello, tra il goliardico e lo snob, voleva soprattutto attuare una rottura a sinistra, tra i compagni abituati alle sciatterie del cibo anonimo.

Ecco alcuni stralci significativi:

«Contro coloro, e sono i più, che confondono l’efficienza con la frenesia, proponiamo il vaccino di un’adeguata porzione di piaceri sensuali assicurati da praticarsi in lento e prolungato godimento. Da oggi i fast food vengono evitati e sostituiti dagli slow food, cioè da centri di goduto piacere. In altri termini, si riconsegni la tavola al gusto, al piacere della gola. (…) Se poi si reclamassero gli slogan a tutti i costi, certo non mancherebbero: a tavola non si invecchia, per esempio, sicuro, tranquillo, sperimentato da secoli di banale buonsenso. Oppure: lo slow-food è allegria, il fast-food è isteria. Sì, lo slow food è allegro!».

Come dice Petrini, quell’associazione era nata per chi ha la pancia piena, mentre oggi Terra Madre, la grande novità del 2004 che raccoglie comunità del cibo in lotta per la biodiversità e la sostenibilità ambientale sparse in 160 Paesi del mondo con centinaia di migliaia di militanti, si batte anche per chi ha la pancia vuota.

Slow Food non è rimasto un piccolo gruppo di visionari dediti al piacere del cibo, ma come spiega Roberto Burdese, il presidente che dal 2006 al 2014 ha preso in mano il timone da Carlin, ha «spaccato il terreno» dove tanti poi hanno seminato.

Così il movimento che propugna il cibo «buono, pulito e giusto» è diventato un «bene comune», ha generato un’Università a Pollenzo dove la gastronomia e il cibo sono l’insegnamento principale, influenzando industriali, artigiani, media.

E il fondatore è ormai un leader internazionale, annoverato tra «le 50 personalità che possono salvare il mondo», Ambasciatore Fame Zero della Fao, “amico” di Papa Francesco e del Principe Carlo d’Inghilterra.

Cosa rimane di quel manifesto pubblicato trent’anni fa? Il piacere del gusto, che però deve essere per tutti. La lotta contro la globalizzazione. Il rifiuto di un cibo che diventa merce e si fa anonimo, senza legami con la storia, la cultura, il territorio.

Dice Carlo Petrini nel libro: «Un ambientalista non gastronomo è triste, un gastronomo non ambientalista, è sciocco».

Aggiunge Nino Pascale, il presidente-contadino campano eletto a sorpresa nel maggio 2014: «Soltanto quindici anni fa nessuno si chiedeva come era prodotto un cibo giudicato buono».

Dunque niente gauche caviar o gourmet con il cachemire alla ricerca di chicche gastronomiche, ma un movimento politico globale che si batte per cambiare il mondo, magari partendo proprio dal nostro menu di tutti i giorni.