Se si rivede oggi Ninotchka (1939), non si può non restare abbagliati dalla felicità inventiva di una delle più belle commedie di Ernst Lubitsch. Gli agenti sovietici in missione a Parigi, gli irresistibili Bulianoff, Iranoff, Kopalski, cedono subito alle lusinghe del capitalismo, mentre la compagna Greta Garbo, l’inflessibile commissario Nina Yakusciova, ci mette di più a lasciarsi catturare dal fascino della ville lumière. Alla fine anche lei perde la testa, ma non l’improbabile cappellino che ha adocchiato fin dall’inizio nella hall dell’albergo. S’innamora, ride, si ubriaca, cade fucilata dal botto di un tappo di champagne dopo la celebre battuta: «Compagni! La rivoluzione è in marcia, le bombe cadranno, la civiltà crollerà in pezzi. Ma per favore non adesso». Lanciato con lo slogan Garbo laughs!, il film sembra aprire una nuova, inattesa stagione nella carriera dell’attrice, mai apparsa prima in una commedia. Ma il clamoroso flop di Non tradirmi con me (1941), il film successivo di George Cukor la induce a lasciare per sempre il cinema a appena trentasei anni.
Nessun altra aveva saputo raccontare come lei la passione amorosa in una ventina di film diseguali, da Il torrente (1926) a La tentatrice (1927), da La carne e il diavolo (1927) a La donna divina (1928), da La donna misteriosa (1928) a Destino (1929), da Orchidea selvaggia (1929) a Donna che ama (1929), da Il bacio (1929) ad Anna Christie (1930), da Romanzo (1930) a La modella (1931), da Cortigiani (1931) a Mata Hari (1932), da Grand Hotel (1932) a Come tu mi vuoi (1932), da La regina Cristina (1933) a Il velo dipinto (1933) da Anna Karenina (1935) a Margherita Gauthier (1937) a Maria Walewska (1937).

Non mancano le eccezioni, ma la maggior parte dei suoi film sono firmati da artigiani fedeli ai diktat dello Studio che incarnano la politica della committenza più che l’estro necessario a fronteggiare l’imprevedibilità dell’attrice. Se i nomi prestigiosi di Victor Sjöström, Rouben Mamoulian, Jacques Feyder, non sono sufficienti a garantire la quadratura del cerchio del successo, forse solo Clarence Brown per il muto e George Cukor per il sonoro si rivelano all’altezza della loro fama di women’s director di spregiudicata sensibilità, prima della normalizzazione espressiva degli anni trenta imposta dal Codice Hays.

SEX APPEAL MISTERIOSO
Nonostante i suoi film siano spesso modesti, affidati alle logore convenzioni del melodramma e ai ricatti sentimentali della cattiva letteratura, quasi sempre il carisma dell’interprete s’impone fino a brillare di luce propria. La bellezza misteriosa della sfinge svedese, per sedurre le platee, non ricorre al sex appeal – c’è chi in lei non lo vede affatto, lo considera completamente assente o almeno latitante nell’ostentazione degli atteggiamenti androgeni o addirittura mascolini – ma alle segrete alchimie della sua strepitosa fotogenia. Il volto intenso, la camminata altera, il magnetismo della immedesimazione totale, a cui non sono estranee la tenerezza e l’ironia, fanno di Greta una delle più alte incarnazioni del cinema come arte, confrontata a più riprese con il grande Charlot di Chaplin.

Il trionfo della Garbo, di cui il pubblico femminile invidiava i costosi vestiti che indossa sullo schermo, viene spesso attribuito a Adrian, il costumista della Metro-Goldwyn-Mayer che la studia come un chirurgo scruta il pazienti con i raggi X. Alla sua immagine essenziale, inimitabile, archetipica, avrebbero contribuito i grandi cameraman hollywoodiani, a cominciare da Bill Daniels. Nessuno sembra voler ammettere che Greta ha fatto tutto da sola – Cecil Beaton l’ha paragonata a un sismografo capace di registrare la gamma più delicata e impercettibile di vibrazioni – dimostrando la singolare creatività di un’interprete che è stata regista di se stessa, una straordinaria, irripetibile attrice-autrice. Il paradosso della grande svedese è che, senza la logica brutalmente mercantile degli Studios, non si sarebbe dovuta inventare da sé, ma per preservare il fantasma a cui aveva dato vita, il fascino senza tempo della sua miracolosa apparizione, si condanna a star lontana dal set.

Nessuno l’ha detto meglio di Roland Barthes: «La Garbo offriva una specie di idea platonica della donna, e ciò spiega perché il suo viso sia quasi asessuato senza essere equivoco. L’appellativo di Divina mirava a rendere l’essenza della sua persona corporea, scesa da un cielo dove le cose sono formate e finite nella massima chiarezza. Naturalmente lo sapeva anche lei. Quante attrici hanno accettato di lasciar vedere alla folla l’inquietante maturazione della loro bellezza? Ma lei no: bisognava che l’essenza non si degradasse, che il suo viso non venisse mai ad avere una realtà diversa da quella della sua perfezione intellettuale più ancora che plastica. Il viso della Garbo rappresenta quel fragile momento in cui nel cinema l’archetipo sta per piegarsi verso il fascino dei visi corruttibili, l’Idea sta per lasciare il posto all’Evento».

PROGETTI PERDUTI
Nel suo lunghissimo esilio si moltiplicano i progetti che resteranno irrealizzati, dalla vita di Sara Bernhardt a quella della principessa Anastasia, da Marie Curie a George Sand. Sono molti i testi teatrali che per pochi giorni o per qualche mese sembrano vicini a concretizzarsi, come Olympia di Ferenc Molnàr, Santa Giovanna di George Bernard Shaw, Il lutto si addice a Elettra di Eugene O’ Neill, L’aquila a due teste di Jean Cocteau, Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov, Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams. Se le chiedono di portare sullo schermo Lady Chatterly o Emma Bovary, contropropone Dorian Gray e San Francesco, senza curarsi delle scandalizzate reazioni negative.

Qualche possibilità in più sembra averla La duchessa di Langeais di Balzac. Dovrebbe essere girato tra Roma e Parigi da Max Ophüls, che pensa di metterle accanto James Mason in un audace scambio delle parti. La duchessa ricca di potere, bellezza e sadismo è destinata a diventare la vittima di un uomo che sa cogliere il suo punto debole. «Balzac e Garbo, che combinazione!», esclama il regista tedesco nel bellissimo racconto che Manuel Puig dedica al loro ultimo incontro. Il film è ormai saltato, forse anche per la stravaganza dell’attrice che, dopo aver fatto aspettare i finanziatori qualche settimana, finalmente li riceve in una suite al buio con le veneziane abbassate. Il commenda Angelo Rizzoli ci rimane male e si ritira dalla coproduzione. Nella sua stanza d’ospedale, il vecchio regista se ne sta andando. «Quando lei è entrata qui con quei fiori, aveva le braccia cariche di compassione per me», le dice. «No, Max, tra le mie braccia porto sempre mio padre, cerco di dargli forze!», gli risponde Greta. «Si è ammalato di tubercolosi lavorando nelle vie gelide di Stoccolma, faceva qualsiasi mestiere, persino lo spazzino. Io l’ho visto spegnersi a poco a poco, è morto quando avevo quattordici anni. Da allora occupa sempre le mie braccia. Ma è tutto inutile, non posso far niente per rendergli la vita». Al momento del congedo, Max Ophüls le dichiara la sua infinita ammirazione: «I suoi film sono tutti dei classici, Greta. Peccato non avere un proiettore in questa stanza per vederli di nuovo. Se vado in paradiso spero di trovarmi una macchinetta che mi permetta di proiettarli avanti e indietro quante volte voglio».

INCONTRI MANCATI
Straordinario l’incontro con Ingmar Bergmar negli studi della Svensk Filmindustri di Stoccolma, dove nel ’24 Greta era stata diretta da Mauritz Stiller in La saga di Gösta Berling, il suo primo film. In una fredda giornata d’inverno la limousine nera dell’attrice si ferma davanti alla città del cinema svedese. Ingmar riceve la diva nel suo ufficio: «La stanza era piccola, una scrivania e un divano sfondato. Io ero seduto alla scrivania, Greta Garbo sul divano. La lampada da tavolo era accesa. Questa era la stanza di Stiller, disse subito guardandosi intorno, ne sono certa. All’improvviso si tolse i grandi occhiali da sole dicendo: «Dunque questa è la mia faccia, signor Bergman». Il sorriso fu rapido e abbagliante, malizioso. È difficile dire se i grandi miti continuano a esercitare la loro magia perché sono miti o se la loro magia è un’illusione creata da noi fruitori. In quell’istante non c’erano dubbi. Nella penombra della piccola stanza la sua bellezza era eterna. C’era come una vitalità intorno ai grandi, puri lineamenti del suo volto, intorno alla fronte, al taglio degli occhi, al mento dalla nobile forma, al naso sensibile. Cominciò a parlare del lavoro per La saga di Gösta Berling. Andammo nel piccolo teatro di posa e cercammo nell’angolo sinistro. C’era ancora un’ammaccatura nel pavimento, conseguenza dell’incendio del castello di Ekebù. Lei citò il nome dei tecnici e degli elettricisti che ancora ricordava».

Fanno poi un rapido giro per la città del cinema. «Era vestita elegantemente, in giacca e pantaloni, si muoveva con energia, il suo corpo era vitale, attraente. Siccome sulla strada ripida c’erano dei tratti sdrucciolevoli si appoggiò al mio braccio. Quando tornammo nella mia stanza era allegra e distesa. Si piegò verso la scrivania e la lampada le illuminò la parte inferiore del volto. Allora vidi qualcosa che non avevo visto prima! La sua bocca era brutta: un pallido taglio circondato da rughe. Tanta bellezza e in mezzo a quella bellezza un accordo dissonante. Non c’era chirurgia plastica né truccatore che potesse far sparire quella bocca e quel che raccontava. Lesse immediatamente il mio pensiero e tacque, infastidita. Qualche minuto dopo ci separammo. L’ho osservata attentamente nel suo ultimo film. Il volto è bello ma teso, la bocca priva di dolcezza, lo sguardo perlopiù distratto, triste nonostante la situazione da commedia. Il suo pubblico intuì forse qualcosa che lo specchio da trucco le aveva già detto». Si dice che nell’incontro il regista avrebbe cercato di coinvolgerla nel film che stava preparando in quel momento, Il silenzio, offrendole la parte di Ester, poi interpretata da Ingrid Thulin. Uno dei personaggi più significativi dell’universo bergmaniano, una donna lucida ma in crisi, contraddittoria ma forte, incapace di dimenticare la morte del padre e delusa dalla vita.

L’ultima occasione mancata è quella di impersonare la Regina di Napoli che irrompe nel salotto di Madame Verdurin per difendere Charlus. Glielo propone la produttrice Nicole Stéphane quando spera ancora di portare sullo schermo la Recherche di Proust con Luchino Visconti. «Avevo pensato a Greta Garbo per il ruolo. Ne ho parlato con Luchino: “Se facciamo le cose intelligentemente, basterebbe un giorno di riprese con Charlus”. Valeva la pena di tentare. Conoscevo una persona che era molto amico di Greta Garbo. Gliene ho parlato. Un giorno lei mi ha telefonato e mi ha detto: “Tra due settimane Greta verrà da me a prendere il tè, vuoi venire?”. Quando ho incontrato la grande attrice, due cose mi hanno particolarmente colpito di lei: il suo sguardo (i suoi occhi) e la sua voce. Era perfetta per il film, era la Regina di Napoli! Le ho spiegato il progetto per una mezz’ora, ho cercato di convincerla, lei mi ha promesso di rifletterci. Era una risposta piuttosto incoraggiante, non era un no, non era negativa. Ho telefonato a Visconti e gli ho detto: “Vi prego, soprattutto non ne parlate con nessuno, forse abbiamo una chance”. Qualche giorno più tardi ricevo una telefonata dal Daily Mail. Visconti aveva fatto la conferenza stampa, annunciando che prendeva la Garbo per la Regina di Napoli. Greta era furibonda e se ne è andata sbattendo la porta!».

Nel corso degli ultimi anni viaggia sempre di meno, fino a fare di New York, anzi, di Manhattan, la sua patria di elezione. In pantaloni, maglione e occhiali scuri la percorre a grandi passi nelle sue lunghe passeggiate quotidiane. Sono molti quelli che sostengono di averla vista tra la Quarantaduesima e la Settantesima, o da Bloomingdale, il mitico department store tra la Lexington e la Third Avenue. Gabriele Baldini giura di aver incrociato il suo sguardo, mentre le palpebre si alzano e si abbassano nell’antico gioco fascinatorio, in un impercettibile sussurro: «C’eri dunque anche tu».
Ma il tempo del cinema è per lei irrimediabilmente finito, mentre si ribadisce la scelta della solitudine. Se vuole restare se stessa deve essere quella che è sempre stata. Enigmatica, inafferrabile. Lontana come la luna, sosteneva Dino Risi, arrischiando il paragone impossibile con Anna Magnani: «La Garbo è la luna e la Magnani il ciclone. La luna troppo lontana può influire sui nostri sentimenti ma non si può toccare, mentre il ciclone è qualcosa di pericoloso, ti entra in casa, ti sfonda i vetri delle finestre, ti sfascia le porte».