Una folla oceanica si è data appuntamento oggi nel pomeriggio infuocato dal sole rovente per commemorare le vittime nel primo anniversario dell’esplosione che il 4 agosto scorso ha devastato la capitale libanese e ha causato più di 200 morti, 6mila feriti e 300mila sfollati. I luoghi sono paradossalmente gli stessi della thaura, la rivolta scoppiata il 17 ottobre 2019 contro tutta la classe politica, quell’establishment che a distanza di pochi mesi avrebbe fatto dichiarare al paese insolvenza.

I VARI CORTEI si sono incontrati al porto, poco distante da Piazza dei Martiri, simbolo della protesta, davanti al deposito 12 saltato in aria alle 18:08 e che conteneva 2750 tonnellate di nitrato di ammonio e altro materiale esplosivo. Nitrato di ammonio sequestrato alla nave moldava Rhosus nel 2013 e stoccato al porto nel 2014. L’Osservatorio per i Diritti Umani ha pubblicato due giorni fa un report nel quale accusa letteralmente la classe politica libanese di «negligenza criminale» per quanto accaduto.

Una deflagrazione che ha provocato un’onda d’urto di 200km avvertita a Cipro, in Siria, oltre che in tutto il Libano e che ha trasformato Beirut in un inferno. I partecipanti hanno osservato nell’ora esatta dello scoppio un minuto di silenzio per poi marcarne la fine con un applauso commovente. Subito dopo hanno cominciato a inneggiare alla thaura. La commemorazione si è sciolta, ma buona parte dei manifestanti si è diretta verso Piazza dei Martiri e Downtown, che ospita il parlamento, e lì sono partiti i primi disordini. Gruppi di giovani hanno cominciato a lanciare pietre contro le forze di polizia e a bruciare copertoni. In un primo momento la polizia si è limitata a respingere con qualche lacrimogeno i manifestanti, ma appena è calata la sera e la piazza si è svuotata, è intervenuta in maniera più violenta con lanci massicci di lacrimogeni e cannoni ad acqua, nonché proiettili di gomma.

LA TENSIONE era comunque nell’aria dalla mattina, Beirut era stata blindata, molte strade bloccate, intensificati i controlli alle vie d’accesso e le perquisizioni ai manifestanti. La croce rossa ha contato più di 50 feriti. L’esplosione era arrivata in un momento difficilissimo per il paese. La crisi finanziaria e il blocco dei conti correnti erano stati il pretesto per cui il malessere popolare convogliasse nell’enorme mobilitazione della thaura. Poi il Covid con tutte le sue implicazioni economiche. Il 4 agosto l’esplosione. La graduale ma incessante svalutazione della lira libanese -agganciata al dollaro a un tasso di 1507 lire, ma oggi praticamente a 20mila lire al mercato nero- e la conseguente inflazione alle stelle hanno fatto in modo che i problemi strutturali del Libano si moltiplicassero.

OGGI IL PAESE si trova ad affrontare diverse crisi nella crisi: manca la benzina e quindi per diverse ore al giorno manca l’elettricità prodotta interamente a diesel; mancano i medicinali, anche quelli più comuni; la disoccupazione è altissima; metà della popolazione è sotto la soglia di povertà, metà della quale estrema. Il paese vive la più importante diaspora dalla guerra civile (1975-90) ad oggi e una crisi economica probabilmente peggiore di quella della guerra stessa. Dopo il passo indietro di Hariri, anche il neo-premier incaricato Mikati sembra avere difficoltà a formare un governo che potrebbe sbloccare la situazione. Questo il clima nel quale la rabbia e la frustrazione di oggi sono sfociate in manifestazioni violente, represse con maggiore violenza.

I familiari delle vittime e il popolo intero chiedono giustizia, ma chiedono anche che questa esplosione non venga normalizzata come una delle tante atrocità già accadute in Libano e cadute nel dimenticatoio. La sostituzione del giudice Fadi Sawan a soli sei mesi dall’incarico -perché accusato di essere coinvolto emotivamente in quanto la sua abitazione era stata colpita dall’esplosione- era stata percepita come un tentativo politico di depistaggio. Il suo sostituto Bitar ad oggi non ha comunque fatto nessun passo in avanti per dare un nome e un volto ai responsabili, mentre i politici godono ancora dell’immunità parlamentare. E di un’intoccabilità, un’impunità che hanno di gran lunga superato il limite della decenza.