Di film sul calcio, si sa, in Italia se ne producono pochi e quei pochi non hanno avuto esaltanti riscontri al botteghino. O meglio dopo l’exploit commerciale delle pellicole sull’argomento prodotte nell’epoca d’oro degli anni ’60, ’70 e in parte ’80 del cinema comico di serie B, delle commedie parodistiche seriali che però va inquadrato nel trend positivo dell’intera cinematografia nazionale, c’è da anni la difficoltà per produttori, registi e sceneggiatori a realizzare opere “serie” sullo sport più amato dagli italiani magari perché poco stimolati dai verdetti del box office. Insomma paradossalmente il paese più pallonaro non premia storie sul pallone, uno dei pubblici più tifosi e calciofili d’Europa non ama prolungare il rito nella sala cinematografica.

L’Arbitro di Paolo Zucca che apre le Giornate degli Autori e sarà in sala dal 12 settembre distribuito dalla Lucky Red, arriva forse nel momento giusto per verificare intanto se il trend negativo è cambiato e soprattutto se quel cinema italiano che per vocazione ha sempre avuto un filo diretto con la cronaca e l’attualità riesce ancora a farsi termometro/specchio degli umori di un Paese in un momento storico particolare (di quelli cioè nei quali gli scandali, la corruzione, il decadimento morale sono talmente devastanti che non si può restare indifferenti difronte a operazioni, sia pure di fiction, che ribadiscono denunce, critica, indignazione). Perché il film d’esordio del quarantenne regista di Oristano, autore di vari cortometraggi e spot pubblicitari, arriva dopo Calciopoli e Moggiopoli e fa riferimento a un ambiente che non è (o non dovrebbe essere) più quello di prima ma è collocato in uno scenario nel quale si allungano di nuovo minacciose le ombre delle truffe e dei trucchi (del resto la Juve è tornata rilanciata e riverniciata ma sempre antipatica e arrogante). Anche se in termini commerciali potrebbe essere un boomerang perché quando si parla di corruzione, di imbrogli, di partite vendute e comprate, di scommesse, di tifoserie violente, di patron intrallazzoni non si può contare su un certo pubblico e una certa tifoseria. E infatti l’autore anche se si tratta di una commedia, mette le mani avanti: “Mi sono molto documentato sugli infiniti scandali di questi ultimi anni che hanno segnato l’universo dello sport. M’è rimasto addosso un odore di ambiguità come se anche i calciatori più onesti, alla fine si facessero contagiare. Racconto il mondo del pallone, ma anche altro: la nostra società. Quella linea di confine che passa tra la truffa e la complicità e che ha avvelenato il nostro paese. Non solo il nostro campionato”.

Il film di Zucca (che in un primo momento doveva intitolarsi Terza categoria poi si è preferito lasciare il titolo del corto) ha un’insolita genesi short (non sono tanti i corti italiani diventati lungometraggi). E l’operazione non ha niente a che vedere con le tradizionali dilatazioni di storia e personaggi, anzi il secondo sembra una naturale evoluzione del primo, un’integrazione dal punto di vista della vicenda, dello stile, degli interpreti, della prospettiva. L’omonimo cortometraggio del 2008, girato in bianco e nero per gran parte in Sardegna con attori non professionisti sardi, vincitore l’anno successivo del Premio Speciale della Giuria al Festival di Clermont-Ferrand e del David di Donatello, narra con volti e corpi neorealisti e stile pasoliniano dei destini di due ‘ladroni’, le cui sorti si intrecciano tra le pietre e la polvere di un disastrato campo di calcio in occasione di un surreale derby calcistico di infima categoria. Uno dei due ladroni è un arbitro professionista, declassato per punizione nell’inferno calcistico della Sardegna interna, l’altro è un occasionale ladruncolo di agnelli, che si troverà a fare i conti con un suo compagno di squadra nel corso della partita.

Il lungometraggio che ha conservato il bianco e nero e può contare su un bel cast (Stefano Accorsi, Francesco Pannofino, Marco Messeri, Geppi Cucciari), per certi versi è un prequel e un approfondimento delle vicende raccontate nel cortometraggio. Al centro c’è un arbitro corrotto che dopo essere diventato ricco e famoso conosce un doloroso crollo. La sua vicenda è intrecciata con la sfida sportiva di due squadre rivali di livello bassissimo: l’Atletico Pabarile, la squadra più scarsa della terza categoria sarda, che ogni anno viene umiliata dal Montecrastu, squadra guidata da Brai, arrogante proprietario terriero abituato a vessare i peones dell’Atletico in quanto padrone delle campagne. Finché un giorno torna in paese il giovane emigrato Matzutzi e l’Atletico Pabarile comincia a vincere una partita dopo l’altra grazie alle prodezze del suo novello fuoriclasse. A complicare ulteriormente le cose c’è poi anche una faida tra due cugini del Montecrastu.

La musica di Bach, una fotografia elegante, l’uso del ralenti, i corpi sgraziati dei calciatori di infimo livello, il loro linguaggio basico, una comicità paesana. Il modello di Zucca sono i fratelli Coen, ma anche la commedia amara di certo Monicelli e certo Risi. Lui definisce L’arbitro una farsa crudele ricca di trovate spiazzanti: “A un certo punto, sul campo di calcio, due giocatori si ammazzano per una antica faida familiare che li contrapponeva da anni e la palla rotola in mezzo ai cadaveri. Mi piace mescolare i generi, gettare scompiglio”.