Un Mishima poco Mishima firmò nel 1963 questo felice romanzo o racconto lungo, fin troppo brillante, agile, elegante che si snoda in 54 capitoletti, ben calcolati, La scuola della carne (tradotto da Carlotta Rapisardi, Feltrinelli «I Narratori», pp. 240, euro 16,00), e presentato come inedito in Italia. È il dono perfetto per l’amica single, tra i trenta e i quaranta, aggressivamente portati, una creativa in carriera che abiti in una grande metropoli come Tokyo, frequenti con disinvoltura una Roppongi notturna, i gay bar, faccia shopping nelle più costose boutique italiane. E invece che alla famiglia originaria rivolga la sua richiesta di affetto a due amiche, donne in carriera anche loro, testimoniando quella complicità femminile intensa, adolescenziale, tradizionale in Giappone dove le donne hanno sempre condiviso tra loro una lingua comune, ancor oggi sottilmente diversa da quella maschile.

Si ha la sensazione che dal 1960 al 1963 per Mishima «si fosse aperto di scatto un ombrello di stile occidentale, un ombrello grande, nero e bagnato», e così protetto dai raggi del suo sole nero potesse scambiare una parola lucida, leggera e maneggevole, una valida moneta di scambio con i lettori, che gli fruttava anche dei bei guadagni. La fascinazione del seppuku, il suicidio d’onore, fluttuava a distanza, la sua morsa al momento si era allentata, diventata quasi un trionfo coniugale di eros e thanatos in Patriottismo. L’icona della sua adolescenza, il san Sebastiano languido e sofferente, si celava sotto l’elegante habitué di gay bar, l’autore teatrale di successo che teatralizza anche se stesso in pose da moderno samurai o in impeccabili completi sartoriali. Spesso è all’estero con la giovane moglie, sposata nel ’58. La prima figlia nasce nella nuova, lussuosa abitazione. Fra il 1960 e il 1961 sembra che abbia compiuto una svolta politica – ma che non sarà poi ribadita. Nell’acre, estroverso Dopo il banchetto (1960) attacca duramente la classe politica. In Splendida Stella (1962), compone una frizzante satira alla Thurber della stupidità degli esseri umani, rappresentati da ingenui e grotteschi ufologi giapponesi che si scontrano tra loro, con grande divertimento dell’autore e del lettore.

Poi La scuola della carne (1963), che sin dalle prime pagine emana un profumato erotismo di marca francese. In copertina la donna nuda seduta contorta su una poltrona savonarola, nasconde maliziosamente il viso dietro il fumo della sigaretta e accetta compiaciuta l’abbraccio sadomaso del cuoio. «Le donne divorziate sono naturalmente portate a stringere amicizia tra loro. Lo stesso valeva per Asano Taeko e il suo piccolo clan… Taeko possedeva una boutique, Kawamoto Suziko un ristorante, e Matsui Nobuko si occupava di critica cinematografica e di moda». Già nella prima pagina sono piazzate le giocatrici nel loro campo di giochi: la Tokyo notturna degli anni sessanta (e di oggi), in cui si intersecano i brillanti circuiti di moda, cinema, ristoranti, gay bar eccetera, e la prostituzione maschile dilaga sui marciapiedi illuminati dalle luci al neon. Taeko e le sue amiche anticipano di mezzo secolo le eterne ragazze di Sex and the City, con l’unica differenza che loro non compravano le preziose calzature di Manolo Blahnik ma quelle di Cardin e Ferragamo, come usano tuttora le ricche giapponesi di gusto più severo. In una sera di disperata solitudine in cui inghiotte «deserto in fretta, senza esitazioni», Taeko va a cacciarsi in quel gay bar dove potrà contemplare a piacimento il volto del giovane barman Senkichi: sopracciglia dal taglio fiero e lineamenti virili, un volto di rara sdegnosa bellezza come quello di Mishima stesso in una foto del ’48, a ventitré anni, in copertina sull’edizione italiana di Abito da sera (1967).

Commedia mondana anche questa, modellata su esempi francesi e americani (Capote), che si svolge nella società bene del dopoguerra, priva però di quell’energia drammatica, iconoclasta che l’amour passion di Taeko imprimerà alla sua storia. Senkichi è un ragazzo in vendita, e sa condurre bene il suo gioco. Taeko è pronta a comprarlo, anzi lei stessa alza il prezzo a ogni oscillazione di lui. Come scrive a proposito di Morte di mezza estate Luca Scarlini, studioso dell’opera di Mishima, la narrazione procede nel «lento palesarsi delle più recondite intenzioni, celate nel tran tran quotidiano o nelle volute serpentine di una seduzione mediata, rimandata, eppure sempre presente». Quelle volute serpentine quasi soffocano Taeko che s’impone di non chiedere, non sospettare, non vendicarsi al momento opportuno quando scopre il definitivo tradimento di lui che intende sposare la figlia di un ricco uomo politico, la solita Satoko, nome ricorrente per le eroine vergini di Mishima, piccole kami da adorare.

La finezza della scrittura, della penetrazione psicologica, fa pensare a un coinvolgimento personale di Mishima in una storia del genere. «Nel legame della carne con la carne, l’apparizione di un mondo privo di angoscia creava, riflettendoci, una situazione di per sé angosciante. Si afferravano saldamente per i capelli a vicenda, guardandosi fissi negli occhi, come sul punto di precipitare». Questo va oltre a quanto un gigolò possa offrire. Del resto Mishima non fa che dipanare il groviglio maschio-femmina delle sue famose, conturbanti, Confessioni di una maschera. Lui è Taeko e Senkichi, insieme al di là di tutto, come la carne insegna. Lui li vive entrambi. Il loro conflitto, solo apparente, è alimentato dalla povertà intellettuale di lui che sulla carne troppo elegante di lei vuole iscrivere solo il sesso, nudo e crudo. Difesa dopo difesa lei crolla. È la sconfitta della parola. Sensicki non presenta che il baluardo del proprio corpo: «Negli occhi vacui del ragazzo c’era solo il presente , la verità del qui e ora. E Taeko avrebbe dovuto riconoscere i meriti di questa verità circoscritta. E così, ogni tanto si presentava quel momento di calma che non lasciava spazio alle parole». Anche Barthes riconosce che in Giappone l’individualità non è chiusura, superamento, vittoria, singolarità inaccessibile, ma «è ripresa qui e là, corre di differenza in differenza, distribuita nel grande sintagma dei corpi». E Mishima ne fornisce la prova nel conclusivo Sole e acciaio. Le parole sono morte, solo il corpo è vivo e significa. «L’“Io” che mi occuperà non è l’“Io” che si riferisce strettamente a me, ma qualcosa altro, qualche residuo, che rimane dopo che tutte le altre parole pronunciate da me siano rifluite in me … Quello che cercavo, in breve, era il linguaggio del corpo». Che dice la sua parola più potente nel suicidio.