Dopo Due giorni a Parigi, Due giorni a New York e Skylab, l’attrice-regista Julie Delpy torna con il film Lolo, presentato al Lido nella selezione delle Giornate degli Autori e in programma nel cartellone di Venezia e Locarno a Roma.
Con questo suo ultimo lavoro, Delpy si immerge nei dubbi e nelle nevrosi della curatrice di moda parigina Violette che incontra, durante una vacanza nel Sud della Francia, un programmatore di Biarritz, Jean Renè. Proprio al suo ritorno a casa ecco entrare in scena il figlio Lolo (Vincente Lacoste), l’apparente protagonista del film «intitolato» a lui.

È infatti il ragazzo viziato ed aspirante artista a manovrare non solo i rapporti reciproci, ma la storia stessa. Lui a casa si sente un re, e l’avvicinamento del barbaro dell’Acquitania scatena la sua fantasia più perfida. Il nuovo film della sempre affascinante e coinvolgente Delpy è una commedia che gioca continuamente sui punti di vista, quasi da creare una specie di dualismo nel rapporto edipico tra Violette e Lolo, entrambi consapevoli della morbosità che li lega, ma entrambi incapaci di trovare una soluzione.
L’arrivo di Jean Renè (un tenero ed impacciato Dany Boon) mette in cortocircuito tutto, svelando anche i segreti nascosti nel loro passato. Non è la prima volta infatti che il figlio tenta di ostacolare le esperienze sentimentali della madre, con atteggiamenti provocatori quanto perversi (dalla polvere irritante, alla messa in scena di un tradimento, fino al tentativo finale di distruggere anche professionalmente Jean Renè). Sullo sfondo Violette e le amiche, istinti erotici e dubbi professionali, in una nuova Parigi fredda e cementificata.

Non c’è solo Edipo nelle derive di parole e sentimenti della Delpy, c’è il rapporto tra generazioni e sessualità, quello tra megalopoli e provincia, quello tra condizioni sociali che stabiliscono diverse sensibilità. Tutto però quasi inconsapevolmente gira attorno a Lolo, discolo e cafone ma anche tenero quando ammette il fraintendimento del rapporto «amoroso» con la madre.
Il film a tratti è sgangherato, le battute ed i dialoghi spesso si perdono, la narrazione rischia il semplicismo dell’insoluto ma è la sincerità a fare da collante a ciò che la Delpy cerca di descrivere. Questo lavoro è retto anche dal suo coraggio, dal mettersi in scena con i propri errori, di donna e di mamma, ma anche con la propria estrema vitalità.
Nel finale il ritorno all’ordine pare essere, in realtà, un ribaltamento del gioco delle parti. Esce Lolo ed entra in scena la figlia di Jean-Renè, diventato oramai solido finanziere londinese; riuscirà la nostra Violette a tenerle testa? Infondo l’amore è un gioco, e spesso lo è anche il cinema.