Judd Apatow, a prescindere dalle evidenti discontinuità formali, è probabilmente l’unico erede del discorso sentimentale d Blake Edwards, inaugurato alla fine degli anni Settanta con 10 e proseguito, pantere rose postume a parte, sino a Nei panni di una bionda. Apatow, che proviene dalla tv e ha favorito il lancio di talenti comici come Seth Rogen, non possiede certo la lunare e sublime maestria slapstick di Edwards, ma più di ogni altro autore statunitense degli ultimi anni ha intercettato il sordo malessere, risolto sempre in forme filmiche sovversive, che solcava film come I miei problemi con le donne, Micki e Maude e Appuntamento al buio. Se in Edwards le architetture formali delle gag rimandavano sempre al muto e a Lubitsch (le teorie delle porte che si aprono e chiudono), Apatow, in minore, provenendo dalla tv, ha reimmesso nella commedia un’aria da performance improvvisata (cosa che risulta evidente quando si scorrono gli extra nel dvd dei suoi film).

Come se fosse un emissario della tv teatrale delle origini, Apatow concede ai suoi interpreti tutto lo spazio per esistere in quanto parola e performance. Ed è nell’ambito di questa libertà, quando i risultati sono particolarmente buoni, come nel caso dell’ottimo Questi sono i 40, che i punti di contatto con la poetica autunnale di Edwards sembrano farsi più evidenti. Maneggiando i ritmi della parola televisiva, Apatow riesce a calare in essi un discorso adulto che il piacere della coprolalia e del paradosso dissimulano solo sino a un certo punto. Cinema della parola, dunque, quello di Apatow, ruotante intorno a una serie di ossessioni sentimentali ritornanti. In un’ipotetica triangolazione, il discorso di Apatow rimbalza dalle feroci routine stand up di Louie C.K. alle massacranti ironie autolesioniste della serie Girls scritta da Lena Dunham. Si tratta sempre di discorsi in prima persona, crudamente generazionali dotati però dello scarto politico di allontanare lo sguardo dal perimetro del proprio ombelico per intercettare quanto gira nel mondo oggi. Uno dei temi ritornanti della poetica di Apatow, e dello stuolo di talenti che gli ruotano intorno, è ovviamente la famiglia: l’impossibilità di sfuggirle e la necessità irrinunciabile di metterla costantemente in discussione.

Un disastro di ragazza, interpretato dall’ottima Amy Schumer, se da un lato offre moltissime indicazioni, soprattutto nella prima parte, rispetto alle modalità lavorative di Apatow, dall’altro mette in evidenze anche alcune delle sue debolezze, ossia la tendenza a volere per forza di cose ricomporre il racconto nella chiusa di un lieto fine. Irresistibili i maldestri tentativi di Amy Schumer di impressionare Bill Hader (interprete davvero eccellente) e, soprattutto, la disastrosa uscita cinematografica della protagonista con John Cena (divo di prima grandezza della WWE), per la prima volta interprete convincente dopo una sfilza mediocri action movie. Ovviamente le cose si normalizzano man mano che la love story procede, ma i siparietti di Hader con LeBron James (nei panni di se stessi) sono impagabili. L’altro straordinario attivo del film è un’irriconoscibile Tilda Swinton, esilarante nel ruolo di una micidiale editor. L’amarezza, come sempre, è riservata ai genitori, intesa come immagine di un possibile e prossimo fallimento dei figli, rimpianto di tutto ciò che non è stato e non sarà. In questo senso, il lieto fine, una nota stonata ma non impossibile da comprendere, lo si può intendere anche come un esorcismo: desiderio di interrompere la catena dei fallimenti dei padri e delle madri. Un disastro di ragazza non è un film all’altezza di Questi sono i 40. Ad Apatow si riconosce però, nonostante tutto, un piacere e un gusto del cinema che è solo suo e che ha dato vita a un vero e proprio universo sentimentale e creativo immediatamente riconoscibile.