Venite a vedere, fatevi avanti, signore e signori – esclama il banditore in marsina di fronte alla gabbia delle bestie feroci che si protende dal tendone del circo. Ma non è la Lulu di Wedekind, quella che per quasi quattro ore si dipanerà davanti agli spettatori, al teatro Argentina. A quali intanto vengono distribuite delle palle da scagliare maldestramente contro gli specchi posti al fondo della gabbia. È la polifonica, certo meno frequentata, Commedia della vanità che Claudio Longhi ha messo in scena in un clima da varietà espressionista, fra musiche allusive e costumi esagerati.

EMILIA ROMAGNA TEATRO ha dedicato gran parte delle proprie energie produttive di questa stagione alla riscoperta del teatro di Elias Canetti, cioè quel paio di testi giovanili che il futuro premio Nobel scrisse nei primi anni Trenta, prima di concentrare tutte le energie sulla grande opera della sua vita, la lunga genesi di Massa e potere. Impresa impegnativa, quella di Ert, che pone anche qualche questione più generale. Ad esempio, come affrontare un teatro, come quello di Canetti, che non è entrato nel canone dei classici ormai sottratti al proprio tempo (non a caso si citava la Lulu assurta presto a una dimensione mitologica) e che dunque, anche per questo, reca profondamente il segno del suo tempo. Per giunta, appesantito da una evidente matrice letteraria.

Nozze, per esempio. Commedia del possesso, la si potrebbe ribattezzare. Il possesso dei corpi correlato a quello della casa dove tutto si svolge, lo spaccato di un condominio dove ci si sposta dal basso verso l’alto. Lino Guanciale, al debutto nella regia con gli allievi della scuola di Ert, lo riempie di figurette polverose, tirate fuori da un magazzino di immagini che si rifanno a Grosz e Otto Dix. Ma farcito anche da un’esplosione di saluti e divise naziste, cedendo anche alla tentazione di indicare fin troppo facili equivalenti contemporanei. Sicché lo spettacolo ancora in grado di provocare il sussulto scandalizzato degli spettatori che lo giudicavano osceno, a metà degli anni Sessanta, quando fu messo in scena per la prima volta, si ribalta nell’appello a uno scontato consenso da parte di quello stesso pubblico piccolo-borghese. Contraddicendo fra l’altro lo spirito di contraddizione caro a Canetti.

ASSAI PIÙ elaborata è l’operazione compiuta da Longhi intorno alla Commedia della vanità, a cominciare da una riduzione del fluviale testo che non è mai neutrale (la traduzione è in entrambi i casi quella classica di Bianca Zagari per l’edizione Einaudi). Qui più che di vanità è in questione l’identità individuale, ovvero della sua perdita scatenata dall’impossibilità di riconoscersi. Siamo infatti in una distopica società autoritaria dove è stato vietato il possesso e l’uso di tutti gli specchi, ma anche quello di fotografie e ritratti. E se all’inizio è un allegro accorrere collettivo al gran falò in piazza degli oggetti proibiti (con un evidente richiamo alle piazze berlinesi che, nel maggio di quello stesso 1933 in cui scriveva Canetti, si illuminavano del rogo dei libri sgraditi) poi lo slittamento temporale delle tre parti del testo porta ai prevedibili esiti del proibizionismo, dal contrabbando alle case di piacere in cui ritrovare per un istante il riflesso voluttuoso della propria immagine.
La commedia della vanità non ha una trama vera e propria, quanto piuttosto una serie di situazioni che si coagulano intorno ai numerosi personaggi, fra cui Longhi individua una sorta di asse portante nelle tre figure interpretate tutte da Fausto Russi Alesi. Rappresentanti di diverse condizioni sociali. Padri e figli. Insegnanti e facchini con mogli e sorelle al seguito. Proprietari e domestiche tuttofare. Ragazzine e dispettose amiche intime.

UN PREDICATORE… Esibiti come attrazioni circensi, come la Lola Montès del film di Max Ophüls che il regista cita fra le proprie fonti di ispirazione, al suono di un violino e di un cimbalom, uno strumento a corde battute tipico dell’Europa centro-orientale. Musicale è del resto la struttura drammaturgica che si sviluppa all’interno della scena a piani multipli di Guia Buzzi, dove un grande schermo sul fondo rimanda l’immagine di una deserta Metropolis, per restare a quegli anni. Laddove progressivamente emerge lo sguardo di Canetti, letteralmente apocalittico, nutrito dalla lezione di Karl Kraus. Disvelamento o rivelazione che apre alla catastrofe, come in Nozze il rivolgimento che pone termine al dramma.