Carlo Lizzani, «Storia del cinema italiano. Dalle origini agli anni Settanta», a cura di Francesco Lizzani e Valentina Innocenti, Roma, Castelvecchi, pp. 280, euro 25
Ha ragione Marco Tullio Giordana quando nell’introduzione dice che Lizzani con questa Storia è stato il primo a rompere il ghiaccio. Anche oggi che del cinema italiano si scrive in tutto il mondo, pochi dimostrano di avere le idee chiare come chi ha vissuto dall’interno le contraddizioni di un’epoca. A proposito della rivoluzione neorealista non ha mai smesso di richiamare l’attenzione sul rinnovamento delle forme espressive. Sul rapporto tra individuo e collettività, uomo e paesaggio, sulla miscela dei generi e la nuova concezione dello spazio e del tempo – le coordinate a cui attribuisce l’esaltante vitalità di quella stagione – ha scritto nel ’78 le pagine lucidissime dell’introduzione alla sceneggiatura di Riso amaro, dove coniuga in modo sorprendente l’analisi strutturale alla politica dell’immagine, la storiografia alla testimonianza.


Enrico Lancia, Fabio Melelli, «I film di Aldo Fabrizi», Roma, Gremese, pp. 182, euro 25
Quando tra il ’42 e il ’43 il cinema lo scopre, Aldo Fabrizi ha al suo attivo almeno un decennio di varietà. Al grido di «Ciavète fatto caso?», l’one man show autarchico si esibiva nei suoi implacabili monologhi, altrettante raffigurazioni della storia minore dell’Italia fascista, in cui la comicità non nasconde mai del tutto il sottotesto tragico. Come succedeva nelle vignette di Attalo che l’ha più volte disegnato con corrosiva cattiveria. Subito dopo siamo già alla svolta paradigmatica di Roma città aperta, che ne rivela le singolari qualità di interprete drammatico accanto alla Magnani. Negli anni successivi diventa la maschera più debordante e sgangherata della commedia all’italiana, che aveva anticipato nella trilogia di La famiglia Passaguai, all’insegna dell’horror vacui tanto è affollato e sovraccarico ogni, esilarante fotogramma.


Gianni Canova, «Quo chi? Di cosa ridiamo quando ridiamo di Checco Zalone», Vimercate, Sagoma, pp. 140, euro 15
Sospeso tra saggio critico, diario famigliare, apertura in versi, siparietti colloquiali, sociologia della ricezione, il brillante libretto si interroga sul fenomeno Checco Zalone che, con quattro film (Cado dalle nubi, Che bella giornata, Sole a catinelle, Quo Vado?) in sette anni, continua a far discutere, mentre gli incassi stellari mandano in tilt il box office. Smonta con leggerezza i meccanismi del comico, dal dosaggio del turpiloquio al funambolismo della battutaccia («la trasgressione non è mai lui a farla, la facciamo noi»), dalla maschera («il labbro tremulo e la pancetta impiegatizia») all’iperbole. «Attentatore inconsapevole e gentile» dei luoghi comuni, non smette di spiazzarci, passando «dalla comicità gerarchica alla comicità egualitaria». Senza bisogno di inventarsi un nemico, di ridere contro qualcuno, «con un geniale rovesciamento di prospettiva, fa in modo che il suo pubblico rida di sé. Di sé e di lui».