Il 3 e 4 ottobre si voterà in 1347 comuni, tra cui grandi città come Roma, Napoli, Torino, Milano, Bologna. Intanto, importanti città del Sud sono in pre-dissesto finanziario, praticamente sull’orlo del default. Parliamo di Napoli, Reggio Calabria, Messina, Palermo. E’ una situazione che accomuna centinaia di comuni, anche del Centro-Nord. La pandemia e la recessione hanno fatto crollare le entrate locali, solo in parte compensate dagli aiuti dello Stato. In verità la precarietà della finanza locale risale a ben prima della pandemia. Fin dai primi anni del duemila, i governi hanno scaricato sulle autonomie locali il peso dei tagli imposti dalla politica dell’austerità. I comuni, inoltre, hanno perso capacità impositiva per l’abolizione indiscriminata dell’Imu sulla prima abitazione. Una decisione miope che ha favorito le famiglie con redditi alti e pluriproprietari di case, dissanguando le casse comunali.

Certo è che oggi il grado di insoddisfazione dei cittadini rispetto ai servizi pubblici è aumentato. Le città meridionali, poi, vivono una situazione particolarmente grave per le distorsioni e le sperequazioni legate alla spesa storica. Lo Stato, con un criterio del tutto arbitrario, ma consolidatosi nel tempo, trasferisce maggiori risorse dove storicamente c’è una maggiore dotazione di infrastrutture e di servizi, penalizzando chi è rimasto indietro. Sta qui una delle ragioni del divario crescente tra Nord e Sud, anche in termini di qualità della vita. L’«autonomia differenziata», da questo punto di vista, non farebbe che peggiorare le cose.

La stessa attuazione del Pnrr, che avviene in un contesto di ripresa economica, forte soprattutto nelle filiere produttive del Nord, può diventare un fattore ulteriore di crescita dei divari territoriali. E’ vero che il 40 per cento dei fondi del Pnrr è destinato al Mezzogiorno, ma i primi segnali ci dicono che non sarà così semplice. Secondo alcune stime, gli 82 miliardi di euro per il Sud (il 40 per cento del totale), si ridurrebbero, a conti fatti, a 8 miliardi ovvero al 10 per cento di quelli previsti sulla carta.

Un esempio ci aiuta a capire. Il Miur (il ministero dell’istruzione e della ricerca) ha bandito una gara per la costruzione di nuovi asili nido con risorse del Pnrr (700 milioni di investimento). Su un totale di 4,6 miliardi per “asili nido e scuole per l’infanzia”. Tra i criteri che premiano le domande c’è quello del cofinanziamento che dà 10 punti, mentre la mancanza di asili nido rispetto alla media nazionale dà solo 3 punti. Con questo criterio Bologna, Firenze e Milano saranno avvantaggiati mentre Napoli, Bari o Palermo resteranno indietro. Considerando le differenze abissali che ci sono nel numero di asili nido tra il Sud e il resto del paese sarebbe il caso di evitare marchingegni che hanno lo scopo di dirottare verso altre realtà i soldi spettanti al Sud.

Se vogliamo che le risorse siano utilizzate per attenuare le disuguaglianze sociali e territoriali, non per allargarle, c’è un problema di indirizzo politico, di certezze finanziarie da rispettare e di vigilanza da esercitare. Restando sul caso specifico, il rischio è che ad essere esclusi siano sempre gli stessi: i figli di famiglie a basso reddito e a bassa scolarizzazione, che in genere vivono nelle periferie urbane. Servizi come gli asili nido e le scuole per l’infanzia sono decisivi sia nel contrasto della povertà educativa dei bambini sia per gli effetti positivi che hanno sulla vita delle donne, favorendone l’occupazione. Nell’uso del Pnrr, quando sono in ballo finalità sociali ed infrastrutturali, sono quindi da privilegiare i bisogni effettivi.

L’esempio degli asili nido ci serve anche a comprendere che i soldi sono una condizione necessaria ma non sufficiente. Se nelle amministrazioni locali mancano figure professionali con capacità progettuali e digitali, la realizzazione degli interventi del piano di rilancio diventa una missione impossibile. Il problema degli asili nido ci parla dunque del tema più generale del rafforzamento tecnico e amministrativo del sistema delle autonomie, attualmente impoverito dall’alto numero di pensionamenti ancora non rimpiazzati e logorato da una dipendenza asfissiante dalle politiche e dagli apparati regionali.

Sono da contrastare con fermezza criteri sbagliati nella distribuzione delle risorse, che penalizzano in particolare le realtà urbane del Mezzogiorno. Ma, allo stesso tempo, c’è l’urgenza di restituire autonomia fiscale e politica agli enti locali nel loro insieme. C’è un problema di riequilibrio di competenze e funzioni tra gli stessi enti locali e le regioni, oggi sbilanciate a tutto vantaggio delle regioni.
Dai comuni dipendono le scelte urbanistiche, l’opera di manutenzione, la difesa del territorio e dell’ambiente, il miglioramento degli standard di servizi, quali l’assistenza domiciliare agli anziani, gli asili nido, il trasporto locale, l’igiene pubblica, il verde, ecc. Con nuovi poteri ed una reale autonomia fiscale e politica le nostre città potrebbero tornare ad avere una funzione propulsiva a livello locale, e non solo.